martedì 8 maggio 2018

La tragedia dimenticata: migranti morti in mare, lo Stato si autoassolve.

Nella notte tra il 26 e 27 marzo 2011 partiva da Tripoli un'imbarcazione con 72 persone a bordo che, poco dopo, finiva in balia del mare. Hanno perso la vita 63 persone. I sopravvissuti denunciano una omissione di soccorso da parte delle autorità competenti: la Guardia Costiera Italiana e la Marina Militare avrebbero deciso di non mandare alcuna nave a soccorrerli. L'Europa ha aperto una indagine conoscitiva, individuando precise responsabilità italiane, ma il Tribunale di Roma stenta ad accertarle.



micromega Giacomo Russo Spena

Erano in 72, 9 sono riusciti miracolosamente a sopravvivere, in 63 sono morti. Eppure non esiste (ancora) un colpevole. Una tragedia in mare, così è stata catalogata. Una delle tante, se pensiamo che solo nel 2017 sono oltre 3mila i migranti – una media di 10 al giorno – annegati durante il proprio viaggio della speranza. Il Mare Nostrum, un cimitero liquido.
Questo tuttavia non è un caso come gli altri. I sopravvissuti hanno parlato e denunciato. La Procura Militare di Roma guidata da Marco De Paolis ha svolto una indagine faticosa e approfondita, dovendosi solo fermare davanti al muro di gomma opposto dalla Marina Militare Italiana, che negava i documenti interni della Sala Operativa; una Commissione di indagine del Parlamento Europeo ha accertato i fatti e puntato il dito contro l’Italia e la Guardia Costiera Italiana, ree secondo la Commissione di essersi disinteressati del natante in pericolo dopo averne raccolto il segnale di soccorso. Al contrario, la Procura Ordinaria di Roma guidata dal magistrato Giuseppe Pignatone ha archiviato senza svolgere alcuna indagine (come ha tentato di fare anche con il caso “Libra”) ed il Tribunale Civile con un atto nei giorni scorsi ha ritenuto di non dover ascoltare nessun testimone.

Molti gli interrogativi rimasti senza una risposta. Le 72 persone sono state abbandonate in balia delle onde per giorni e giorni, morendo per il freddo, per la fame e la sete. Una tragedia evitabile se solo ci fosse stata la volontà politica e umana di dirottare una nave che era a sole 9 miglia marine dal gommone, con compiti di controllo della pesca e immigrazione. Sulla vicenda è stato girato anche il docu-film "Mare Deserto" di Emiliano Bos e Paul Nicol, (che tra l’altro ha vinto il premio Ilaria Alpi) i quali tramite testimonianze e documenti hanno ricostruito perfettamente quei drammatici momenti.

Gli avvocati Stefano Greco del Foro di Roma e Gianluca Vitale del Foro di Torino – difensori di 3 dei 9 sopravvissuti al naufragio – si sono scontrati contro la volontà dei tribunali che non hanno inteso e non intendono accertare cosa sia successo in un mare che pullulava di navi militari di tutti i paesi della NATO e dove una Risoluzione dell’ONU imponeva di tutelare i civili in fuga dalla Libia. Per i giudici non c'è un colpevole nell’abbandonare in mare un gommone con 2 bambini, 20 donne e 50 uomini, quasi tutti morti. La verità stenta ad emergere malgrado i racconti dei superstiti e le versioni contraddittorie di Nato, Guardia Costiera italiana e Marina Militare Italiana.

Ricostruiamo i fatti: il 19 marzo 2011 la Nato iniziava i bombardamenti in Libia per far cadere il regime di Gheddafi. Lo scoppio della guerra coincideva con un'ondata migratoria; si fuggiva dalle bombe varcando le frontiere minate di Egitto e Tunisia o attraversando il Mediterraneo verso l’Europa. Nelle settimane successive si parlerà di migliaia di partenze di profughi. Nella notte tra sabato 26 e domenica 27 marzo 2011 un gommone lungo circa 7 metri prendeva il largo dalle coste di Tripoli alla volta di Lampedusa. Sull’imbarcazione erano presenti 72 persone, di cui 50 uomini, 20 donne e 2 bambini, tutti provenienti da Paesi sub-sahariani (Etiopia, Nigeria, Eritrea, Ghana e Sudan).

Al fine di caricare il maggior numero di passeggeri possibile, e di conseguenza intascare più denaro, i trafficanti lasciavano a terra buona parte delle provviste utili per il viaggio. I migranti erano anche convinti dai trafficanti che la traversata sarebbe durata soltanto 18 ore, non sarà così. Per mantenere la rotta i trafficanti fornivano ai migranti una bussola e un telefono satellitare per contattare eventuali soccorsi. Una volta in alto mare, preoccupati di non vedere la terra ferma, le 72 persone chiamavano telefonicamente Padre Moses Zerai, sacerdote gesuita di origine eritrea residente in Vaticano, il cui numero di cellulare circola tra chi tenta di fuggire dal continente africano affrontando il mare.

Il messaggio era chiaro: il gommone stava per rimanere senza carburante e imbarcava acqua a causa del mare e dell’eccessivo carico. In mattinata venivano avvistati da un aereo militare francese che segnalava la posizione e la presenza al proprio comando, alla NATO e alla Guardia Costiera Italiana. Alle ore 18.28 del 27 marzo, Padre Zerai chiamava la Guardia Costiera Italiana presso il Centro di Coordinamento e Soccorso Marittimo di Roma (MRCC), la NATO a Napoli e la Marina Militare Italiana comunicando il messaggio ricevuto e l’utenza del cellulare da cui era stato contattato chiedendo contestualmente di attivarsi per i soccorsi. La Guardia Costiera contattava il gommone e chiedeva al gestore delle comunicazioni satellitari le coordinate geografiche del natante. Inoltre chiedeva alla Marina Militare Italiana quali navi operavano in zona. Seguivano, a stretto giro, altre due chiamate dall’imbarcazione a Padre Zerai, caratterizzate da una grande confusione, si sentivano unicamente grida disperate di aiuto. La sala operativa della Guardia Costiera italiana, a sua volta, chiamava ripetutamente l'imbarcazione per sincerarsi delle condizioni dei migranti. Sempre quel giorno, secondo il racconto dei superstiti, un elicottero militare li raggiungeva e calava a bordo una scatola di biscotti e dell’acqua.

In pochi giorni i viveri cominciavano a scarseggiare. Le persone morivano per ipotermia e disidratazione, per primi i bambini. C'era chi pregava, chi delirava e chi in preda al panico moriva tuffandosi in acqua. I più lucidi si idratavano bevendo urina mista a dentifricio e acqua marina. Sempre in quei giorni una nave probabilmente militare si avvicinava al gommone, vi scattava delle fotografie, mentre i superstiti mostravano i corpi dei morti, ma nessuno andava a salvare i naufraghi. Erano tutti troppo impegnati a fare la guerra a Gheddafi. Intanto il tempo passava e quel tratto di mare era attraversato costantemente da navi militari italiane e non. Una in particolare, l’italiana Nave Borsini impegnata nel controllo dei flussi migratori e vigilanza pesca, a poche miglia dal gommone, secondo le carte fornite dalla Marina Militare Italiana, non si avvedeva dello stesso o non veniva avvisata dai superiori gerarchici a Roma. Così svaniva l’ultima speranza.

Ai primi di aprile, dopo svariati giorni di navigazione, il gommone, trasportato dalla corrente, approdava a Zilten in Libia. Le condizioni di salute dei sopravvissuti, come è facile immaginare, erano pessime, due di loro morivano durante lo sbarco sulla spiaggia.

Questa vicenda veniva raccontata per la prima volta dal quotidiano britannico The Guardian nel maggio 2011 poi ripresa in Italia da il Manifesto. Dopo quasi un anno, in data 29 marzo 2012, la Commissione di inchiesta dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa presieduta dalla senatrice olandese Tineke Strik ha depositato il suo dossier alla Commissione per le migrazioni, i rifugiati e gli sfollati del Parlamento Europeo, in cui si legge che la Guardia Costiera Italiana dopo aver raccolto il segnale di soccorso ed aver provveduto a contattare ed individuare il gommone, l’aver allertato tutti gli attori, dopo pochi giorni colposamente si dimenticava di quelle 72 anime.

Oggi gli avvocati dei sopravvissuti, dopo l’inchiesta della magistratura militare, dicono che anche la Marina militare italiana è responsabile di quanto accaduto per non aver mandato Nave Borsini in soccorso del gommone.

La pensa diversamente la magistratura ordinaria romana che ha sempre assolto i vertici militari e della Guardia Costiera. L’Avvocatura dello Stato solo in sede civile, dopo più di cinque anni dai fatti, e tre procedimenti penali, ha eccepito la mancanza di prova che gli attori fossero effettivamente su quel gommone: “Chi dice che non stiano mentendo?”. Inoltre, sottolinea delle incongruenze nei racconti degli immigrati sulla data di partenza o il fatto che hanno gettato in mare la bussola e il telefono satellitare proprio per non essere arrestati come scafisti una volta individuati.

Gli avvocati Greco e Vitale insistono, invece, sulla responsabilità dello Stato italiano e dei suoi organi: "Delle due l'una: o le Autorità italiane non hanno trasmesso in sede operativa SAR la richiesta di soccorso di persone in pericolo oppure l'informazione è sì pervenuta in mare a nave Borsini (nave militare che transitava poco lontano, ndr) ma questa non ha provveduto a soccorrerli, in entrambi i casi i vertici della Marina Militare e della Guardia Costiera non si sono in alcun modo interessati a capire se e come l'ordine di soccorso fosse stato ricevuto e rispettato". Resta il fatto che, finora, la magistratura romana, penale e civile, non abbia trovato il tempo o mostrato il desiderio di capire come 63 persone siano morte nel “Mare Nostrum” Mediterraneo.

La questione è politica. Salvare le vite umane in pericolo nel Mediterraneo è un dovere o meno? Il diritto internazionale e quello interno si applicano a chi scappa dalla tortura, dalla guerra, a donne, a bambini? L’Europa e per essa l’Italia è ancora il baluardo mondiale della tutela dei diritti della persona? Il Mediterraneo è ancora il Mare Nostrum o è piuttosto la nostra Guantanamo? Tra le tante tragedie avvenute nel Mediterraneo, questa del 2011 è emblematica: ristabilire una verità su quei drammatici momenti è il minimo che l'Europa, l'Italia e la nostra magistratura possano fare.

(4 maggio 2018)

Nessun commento:

Posta un commento