sabato 31 marzo 2018

Libro. Disuguaglianza tra le classi o tra i paesi? Branko Milanovic e il futuro che ci aspetta.

Una riflessione sulle implicazioni, per la strategia politica della sinistra, dell’evoluzione della disuguaglianza mondiale a partire dalle analisi e dagli scenari delineati nell’ultimo libro dell’economista Branko Milanovic, “Ingiustizia globale” (LUISS University Press).




micromega  Nicolò Bellanca
Questo articolo cerca di ragionare sulle implicazioni, per la strategia politica della sinistra, degli scenari avvenire delineati da alcuni grandi scienziati sociali. Esso si collega ad un precedente articolo, dedicato alle previsioni sul futuro di Randall Collins[1]. Qui ci concentriamo sull’ultimo libro di Branko Milanovic, riguardante l’evoluzione della disuguaglianza mondiale[2].
Una prima tesi netta, accuratamente documentata nel libro, suggerisce che la globalizzazione ha beneficiato la classe media dei paesi emergenti, specialmente di paesi asiatici come Cina, India, Indonesia, Tailandia e Vietnam; ed ha nel contempo danneggiato la classe media inferiore del mondo, i cui redditi ristagnano.
Ma il vero vincitore, nell’arco degli ultimi 30-40 anni, è il ristretto vertice della piramide sociale planetaria, ovvero la plutocrazia globale: i primi 42 dei circa 2.200 miliardari in dollari possiedono la stessa ricchezza dei 3,7 miliardi di persone meno abbienti. Questa tesi è ormai ampiamente discussa, oltre i contributi specialistici di ricerca, e la possiamo considerare nota.
L’analisi di Milanovic diventa meno scontata quando si sofferma sulla disuguaglianza a livello mondiale.
Nelle stime della disuguaglianza tra paesi, per ciascuna nazione consideriamo il reddito medio e quindi trascuriamo le disuguaglianze interne. È soltanto disponendo di dati su ogni persona nel mondo, che possiamo esaminare congiuntamente le disparità dentro i paesi e quelle internazionali, giungendo appunto a rappresentare la disuguaglianza globale. L’andamento delle varie traiettorie della disuguaglianza è differenziato: dagli anni Ottanta ad oggi, quella interna ai paesi è in aumento, mentre quella tra le nazioni tende a ridursi, grazie alle poderose performance di alcuni paesi asiatici; infine, quella globale segna, se si tolgono i redditi dell’1 per cento più ricco della popolazione (che hanno avuto un’impennata formidabile), una sostanziale stabilità.

Sulla base di questi riscontri, Milanovic affronta un tema canonico del suo settore di studi: è possibile elaborare una teoria del mutamento temporale della disuguaglianza economica? Nel 1955 Simon Kuznets propose un primo schema del cambiamento nella distribuzione del reddito tra gli individui di un paese. La disuguaglianza varia in modo prevedibile, affermava Kuznets, a seconda del grado di sviluppo della società. Durante la modernizzazione, essa aumenta per il crescente divario tra redditi industriali e agricoli, e per la crescente differenziazione tra lavoratori nel settore industriale. Una volta che l’economia è matura, essa invece si abbassa, poiché le nuove generazioni accedono largamente ad alti livelli d’istruzione, migliorando le proprie retribuzioni; le vecchie generazioni chiedono più previdenza sociale e sanità pubblica; la maggiore partecipazione politica sollecita un ruolo redistributivo dello Stato. Da ciò la famosa curva a Ո, per cui la disuguaglianza prima cresce per poi diminuire.

La più autorevole teoria alternativa viene elaborata nel 2001 da Thomas Piketty: la disuguaglianza diminuisce tra il 1918 e il 1980, mentre cresce prima e dopo; anziché una curva a Ո, come quella suggerita da Kuznets, essa ha dunque un andamento raffigurabile mediante una curva ad U. La sua spiegazione si basa su fattori politici ed eventi esogeni: il periodo in cui la disuguaglianza si riduce, è connotato da movimenti socialisti e ideologie interventiste, che introducono la tassazione diretta dei redditi e dei patrimoni da parte dei governi, nonché per le guerre mondiali, che distruggono capitale fisico e che – esigendo una maggiore pressione fiscale e un processo inflazionistico, per fronteggiare i costi del conflitto – riducono il reddito della classe capitalista.

Entrambi gli approcci appena evocati presentano, secondo Milanovic, debolezze. La curva a Ո di Kuznets appare confermata per alcuni Paesi in alcuni periodi, ma altri Paesi non l’hanno mai esibita; soprattutto, essa viene smentita dal recente aumento della disuguaglianza nel mondo ricco. Piuttosto, la curva a U di Piketty rappresenta un capitalismo che, lasciato a sé stesso, non pone freni alla crescita della disuguaglianza: mentre la fase 1918-1980 è considerata un’eccezione, spiegata da guerre e agitazioni politiche, questa teoria non tenta di cogliere le regolarità della struttura economica che siano in grado di limitare e talvolta invertire l’aumento della disuguaglianza. Sotto il profilo empirico, entrambe le curve sono periodicamente valide. Ciò accade perché, sostiene Milanovic, l’andamento della disuguaglianza è ciclico: in alcuni periodi – le fasi ascendenti del ciclo – esso assume una forma che prima sale e poi scende, come rilevava Kuznets, mentre in altri periodi esprime una forma che prima scende e poi sale, come annota Piketty.

È una mossa intellettuale antichissima quella che, per conciliare andamenti opposti attribuiti allo stesso fenomeno, ricorre alla ciclicità, e quindi colloca la pertinenza di ciascuno schema in una diversa fase di un’unica onda che, con regolarità, sale e scende. Ed è una mossa affascinante, perché la ciclicità permette la previsione. L’idea avanzata da Milanovic è che, in una società con un reddito medio in costante ascesa, ovvero nella quale la crescita economica è persistente, si esercitino effetti sistematici sulla disuguaglianza. Mentre egli illustra quest’idea con riferimento all’intera modernità, qui ci concentriamo sul periodo più vicino e sulla prognosi per il futuro immediato. Tra le numerose forze che hanno, lungo gli ultimi decenni, scatenato e rafforzato la disuguaglianza economica, ricordiamo l’elevata mobilità internazionale dei capitali e delle conoscenze, che ha indebolito il fattore lavoro, spesso legato a contesti specifici; il prevalere del settore dei servizi, rispetto a quello manifatturiero, che, contenendo un’elevata eterogeneità, ha comportato una maggiore dispersione salariale e ridotto le opportunità di sindacalizzazione dei lavoratori; il formarsi di un mercato del lavoro globale, che ha messo i lavoratori dei paesi emergenti in contrapposizione a quelli dei paesi a economia matura; l’espansione della finanza, che ha sottratto investimenti all’economia reale e ha spinto verso l’alleggerimento del ruolo degli Stati; il cambiamento tecnologico sbilanciato a favore delle alte qualifiche e che ha, con la robotizzazione, eliminato molti lavori routinari; l’accresciuto ruolo del denaro nella politica democratica, che ha orientato i governi a vantaggio della plutocrazia. Tutto questo è ben noto, e il libro di Milanovic lo documenta rigorosamente.

Molto minore è il consenso intorno alle forze capaci di ridurre la disuguaglianza[3]. Al riguardo, Milanovic distingue due tipi di forze socio-politiche: quelle benigne (più istruzione, più trasferimenti sociali, tassazione progressiva) e quelle maligne (guerre, rivoluzioni, catastrofi naturali, epidemie). Le forze benigne, tuttavia, restano sulla carta, proprio per la prevalenza del capitale sul lavoro, determinata dalle forze pro-disuguaglianza appena richiamate: in una società in cui i lavoratori pesano meno, è difficile immaginare che possano affermarsi l’istruzione gratuita di alta qualità, i trasferimenti sociali o la progressività fiscale. In questa direzione gli Stati Uniti costituiscono, agli occhi di Milanovic, il caso in cui si sta verificando le “tempesta perfetta”, nella quale le forze della disuguaglianza spazzano via le forze benigne e avanzano senza intoppi. Le forze maligne, da parte loro, sono appunto maligne: il loro sopraggiungere potrebbe peggiorare il quadro generale, pur abbassando la disuguaglianza: avere una società più eguale a seguito di una guerra atomica, ad esempio, sarebbe come guarire dal raffreddore per morire di tumore. Inoltre, essendo eventi esogeni, esse sono del tutto imprevedibili.

Di fronte a queste difficoltà nel cogliere le forze in grado di ridurre la disuguaglianza, Milanovic sposta l’analisi sull’interazione tra i fattori socio-politici e quelli economici. Egli dunque, per spiegare il tratto discendente del ciclo della disuguaglianza, introduce, accanto alle forze socio-politiche, una decisiva forza economica: la convergenza mondiale dei redditi, ovvero la tendenza dei redditi dei paesi emergenti, popolosi e relativamente poveri, a raggiungere quelli dei paesi ricchi, qualora i primi registrino tassi di crescita pro capite più sostenuti[4]. Cina, India, Indonesia, Bangladesh e Vietnam costituiscono il gruppo di paesi, tutti asiatici, che sta spiccatamente recuperando; inoltre, dal 2000, anche America Latina, Europa dell’Est e Africa hanno ripreso a crescere, mentre la crisi finanziaria avvolgeva il mondo ricco. Finché il recupero economico delle nazioni in via di sviluppo riduce il divario di reddito tra paesi ricchi e poveri più velocemente di quanto aumenti la disuguaglianza all’interno di ogni paese, la disparità globale dei redditi si restringe. Secondo Milanovic è ciò sta succedendo, specialmente se misuriamo la convergenza ponderandola per la popolazione di ciascun paese. Egli ammette che la crescita di America Latina e Africa è fragile e potrebbe interrompersi ancora una volta, come spesso è già accaduto; ritiene tuttavia che la crescita dei paesi asiatici sia talmente poderosa e diffusa, da far continuare il processo virtuoso perfino se la Cina dovesse incontrare serie difficoltà interne.

L’altra cruciale previsione di Milanovic su cui puntare l’attenzione, è ben espressa dal sottotitolo del capitolo 3: “Da Karl Marx a Frantz Fanon, per poi tornare a Marx?”. Egli indica che nel XIX secolo la disuguaglianza economica decisiva riguarda i rapporti tra le classi all’interno delle nazioni, mentre sta in seconda linea quella tra paesi: nel 1820, ad esempio, l’80 per cento della disuguaglianza risulta dalle differenze interne ai paesi. Questo scenario, indagato da Marx, si rovescia nel XX secolo, quando, come racconta Fanon, la disuguaglianza viene determinata quasi interamente dal luogo: è molto più importante nascere in un paese ricco, piuttosto che sapere se la classe di reddito cui si appartiene è alta, media, o bassa, a prescindere dal paese. Con l’entrata nel XXI secolo, tuttavia, la riduzione della disuguaglianza sulla base della posizione geografica, di cui abbiamo trattato poco sopra, rende nuovamente rilevante quella basata sulla posizione di classe. Questa tendenza comporta che, finché la disuguaglianza tra paesi continuerà a ridursi, sarà quella interna ai paesi a pesare relativamente di più: la divisione dominante sarà quella tra le classi sociali, non quella tra un luogo geografico e l’altro. Torneremo alla società marxiana centrata sulla lotta di classe. «Nei prossimi due o tre decenni è possibile che ci siano sempre più conflitti nazionali sul tema della globalizzazione e della distribuzione del reddito»[5].

Prima di avviarci alla conclusione, dobbiamo menzionare un passaggio di estrema importanza: Milanovic prende le distanze da quello che chiama “nazionalismo metodologico”. Siamo entrati in un’epoca nella quale i confini tra gli Stati-nazione, stabiliti dalla storia in modi spesso arbitrari, costituiscono un velo che attenua la nostra comprensione dei fenomeni. In presenza dei flussi migratori, della circolazione di capitali, merci e conoscenza, della distinzione tra sistemi formali di governo e informali di governance, occorre pensare o direttamente in termini globali, oppure in termini di “luoghi” socio-economici significativi, ma non più coincidenti con i paesi[6]. È questo un punto che riprenderemo tra poco.

Riassumiamo le due cruciali previsioni formulate da Milanovic. 1) La forza decisiva che potrà, nel prossimo futuro, contenere la disuguaglianza globale è la convergenza dei redditi su scala planetaria, ossia il progressivo avvicinamento del tenore di vita di un certo numero di paesi poveri e popolosi a quello dei paesi sviluppati. La convergenza sarà più rapida dell’aumento delle disparità interne ai paesi, e quindi la disuguaglianza globale si ridurrà. 2) Ma se la disuguaglianza internazionale andrà abbassandosi, in termini relativi spiccherà di più quella tra le classi sociali entro ciascun paese. Pertanto, la posizione di classe tornerà a pesare.

La sua prima previsione è stata contestata dal World Inequality Report 2018, pubblicato dai creatori del World Wealth and Income Database, tra i quali Thomas Piketty e Emmanuel Saez[7]. Questo report conferma che la disuguaglianza globale, dopo essersi allargata per decenni, si è stabilizzata, ma sostiene che la tregua non durerà. Nonostante i rapidi progressi delle economie emergenti, la crescente disuguaglianza in quasi tutti i paesi determinerà un’ulteriore concentrazione di reddito a livello planetario. Poiché nemmeno la tumultuosa crescita economica della Cina negli ultimi due decenni è bastata ad ottenere una distribuzione più equa del reddito su scala globale, sembra difficile – nota il report – immaginare il tipo di miracolo economico che potrebbe ridurre il divario di reddito mondiale. Inoltre, una volta che il reddito medio cinese supererà quello medio mondiale, la rapida crescita di quel grande paese inizierà ad ampliare, anziché ridurre, la disuguaglianza globale.

La seconda previsione di Milanovic, a rigore, non dipende dalla prima. Ovviamente, se le disparità interne salissero rispetto a quelle internazionali, essa sarebbe validata. Ma potrebbe essere corroborata anche accettando le critiche del World Inequality Report: avrebbe senso ipotizzare un maggiore peso della divisione tra le classi sociali pure in una situazione nella quale aumentassero sia le disparità interne, sia quelle tra paesi, purché, come in effetti sta succedendo, le prime varino in modo più accentuato. È questo il punto cui desideravo arrivare. Se Milanovic ha ragione, ci aspetta un mondo in cui la disuguaglianza manterrà la centralità politica che ha acquisito negli ultimi anni; in cui le disparità tra un paese e l’altro – meglio, tra un “luogo” e l’altro – rimarranno rilevantissime; ma in cui, in termini relativi, la divisione destinata a rafforzarsi e a contare di più sarà quella tra le classi interne a ciascun paese (o, meglio, “luogo”). La futura strategia politica progressista dovrà prioritariamente concentrarsi sulle condizioni delle classi sociali subalterne nei loro luoghi di vita: una tesi che qualche decennio fa sarebbe suonata del tutto banale, mentre oggi aiuta a leggere lo scollamento tra le élite della sinistra e il popolo[8].

NOTE
[1] Vedi Nicolò Bellanca, “La sinistra e il futuro che ci aspetta: Randall Collins”, 24-01-2018, all’indirizzo http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-sinistra-e-il-futuro-che-ci-aspetta-randall-collins/

[2] Branko Milanovic, Global inequality, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2016; trad.it. Ingiustizia globale, LUISS University Press, Roma, 2017.

[3] Milanovic, op.cit., p.94.

[4] Le ragioni economiche della convergenza (condizionata) sono esposte ad esempio in Elhanan Helpman, Il mistero della crescita economica, Bologna, Il Mulino, 2008, capitolo secondo.

[5] Branko Milanovic, “Intervista a Nicola Melloni”, 13-2-2016, all’indirizzo http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/02/13/diseguaglianza-e-democrazia-intervista-a-branko-milanovic/, corsivo aggiunto.

[6] Il caso italiano è al riguardo esemplare. La disuguaglianza geografica più rilevante non concerne l’Italia come tale, bensì gli squilibri territoriali interni al nostro paese. Fino agli anni 1960, era il dualismo nord-sud a prevalere. Dagli anni 1970 occorreva considerare le tre Italie. Oggi i motori dell’economia sono Lombardia e Emilia Romagna; in seconda linea troviamo Liguria, Piemonte, Veneto e Toscana; mentre l’intero sud, con una peculiarità del Lazio, può essere considerato a traino del nord. Vedi Fabiano Compagnucci & Mauro Gallegati, “La nuova geografia dello sviluppo italiano”, 24-10-2017, all’indirizzo http://sbilanciamoci.info/la-nuova-geografia-dello-sviluppo-italiano/

[7] Vedi il World Inequality Report 2018, all’indirizzo http://wir2018.wid.world/ Un’ottima sintesi è in Eduardo Porter e Karl Russell, “It’s an Unequal World. It Doesn’t Have to Be”, New York Times, 14-12-2017.

[8] Vedi Luca Ricolfi, Sinistra e popolo, Longanesi, Milano, 2017.

(30 marzo 2018)

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