martedì 29 novembre 2016

Referendum Costituzionale. L'eterna paura dei barbari: le origini del "combinato disposto" tra Italicum e riforma costituzionale.

COSTITUZIONESiamo arrivati a dover giudicare insieme la riforma costituzionale e la legge elettorale non per un azzardo del caso, ma per una precisa volontà politica: i due provvedimenti si sono incrociati tra Camera e Senato, nel corso delle loro diverse letture, seguendo un'armonia prestabilita.
 
...E il 4 dicembre votiamo No, senza paura.
 
Storico e senatore del Partito democratico
Questo è stato l'errore fondamentale che ha snaturato l'essenza del referendum costituzionale trasformandolo da un lato in un plebiscito sull'azione del governo e dall'altro anche in una consultazione popolare abrogativa dell'"Italicum".
Saggezza politica e istituzionale avrebbero consigliato di terminare prima la riforma della Costituzione e poi, una volta stabilito il nuovo assetto istituzionale, di definire una nuova legge elettorale adatta a esso. Peraltro, i fatti hanno dimostrato che l'estrema urgenza di avere una nuova legge elettorale era soltanto un alibi dal momento che l'entrata in vigore dell'"Italicum" (approvato nella primavera del 2015) è stata tranquillamente differita sino al 1° luglio 2016.
Sul piano politico le ragioni che hanno portato a incrociare la riforma del Costituzione con la legge elettorale derivano dai contenuti effettivi del cosiddetto Patto del Nazareno. Esso è stato presentato all'opinione pubblica come la generica disponibilità di Silvio Berlusconi a partecipare al processo di riforma costituzionale: in realtà l'accordo, per la sua parte politica, prevedeva soltanto il varo di una nuova legge elettorale, appunto l'"Italicum".

Prova ne sia che proprio alla vigilia del voto per il nuovo presidente della Repubblica, nel gennaio 2015, Forza Italia ha consegnato la merce, quella effettivamente pattuita con Denis Verdini, e così al Senato ha votato l'"Italicum".
Si è trattato di un atto del tutto irragionevole, se giudicato con lenti solo politiche. Infatti, se Berlusconi avesse voluto eleggere il nuovo presidente della Repubblica insieme con il Partito Democratico, gli sarebbe bastato differire di una sola settimana il voto finale sull'"Italicum", spostandolo a dopo l'elezione quirinalizia. Ciò gli avrebbe consentito di presentarsi da una posizione di forza al tavolo delle trattative per la scelta di un nuovo capo dello Stato e avrebbe potuto continuare poi il percorso di riforma costituzionale in modo condiviso, se solo ne avesse avuta l'intenzione.
I fatti dicono che così non è stato, evidentemente, perché quelli politici non erano i soli interessi in gioco. In quell'oscuro passaggio parlamentare del gennaio 2015 i condizionamenti extra-politici di carattere economico, garantiti dal cosiddetto "partito Mediaset", riguardanti il sistema di interessi imprenditoriali di Berlusconi in ambito televisivo, pubblicitario, editoriale, cinematografico, calcistico sono stati più forti e preminenti.
Per questa ragione il cosiddetto Patto del Nazareno, per la sua parte visibile a tutti, quella politica, si è sciolto come neve al sole non appena e soltanto dopo che l'"Italicum" ha superato lo scoglio del Senato. Tutto il resto di quegli accordi ha continuato a operare nell'ombra e in silenzio, al riparo degli sguardi indiscreti dell'opinione pubblica, in attesa che un serio giornalismo di inchiesta possa svolgere il suo compito.
La seconda ragione che ha portato alla definizione del "combinato disposto" ha un'origine istituzionale collegata alla rielezione del presidente emerito Giorgio Napolitano a capo dello Stato. Sia chiaro: il suo è stato un nobile sacrificio compiuto nel nome del supremo interesse nazionale.
Ma forse, in quelle giornate convulse, non si è valutato a sufficienza il fatto che, se la Costituzione contempla la possibilità di rieleggere il presidente della Repubblica, essa tuttavia non prevede che tutti gli attori in campo abbiano la consapevolezza di un mandato a tempo, come poi effettivamente è stato. Non a caso, i padri costituenti stabilirono che le legislature durassero cinque anni e la carica di presidente della Repubblica due in più.
Tra il 2013 e il 2015 la coscienza della limitatezza della durata temporale dell'incarico del nuovo capo dello Stato ha creato uno squilibrio istituzionale nei rapporti tra il potere esecutivo e quello legislativo. Tale squilibrio è poi proseguito, trasformandosi in un costume di governo, per esempio, consentendo che si accumulasse un numero eccezionale, e non giustificato sul piano politico, di fiducie parlamentari.
Inoltre, ha alimentato un clima di che ha prodotto l'errore del "combinato disposto" e una riforma costituzionale, la cui mediocrità è stata denunciata in un impegnativo documento da ben 56 ordinari di diritto costituzionale, di ogni orientamento politico e civile, alcuni dei quali ex membri della Suprema corte.
L'urgenza apparteneva sia al presidente della Repubblica, comprensibilmente desideroso di vedere il prima possibile compiere le ragioni per cui, contro la sua personale volontà, aveva accettato di essere rieletto, sia del giovane presidente del Consiglio, consapevole di avere preso il potere senza che il suo predecessore fosse stato sfiduciato dal Parlamento e, soprattutto, senza un passaggio elettorale.
Questa condizione ha indotto Renzi a ricercare una legittimazione di carattere popolare articolata in due fasi: la prima è stata ottenuta con il voto alle elezioni europee, dove, per la prima volta dopo tanti anni, è stato consentito a un presidente del Consiglio di utilizzare la leva del governo a fini di consenso elettorale con il celebre e oneroso provvedimento degli 80 euro, un bonus elargito a milioni di elettori proprio nelle ore in cui si svolgeva la consultazione politica.
La seconda, almeno nel disegno iniziale di Renzi, avrebbe dovuto realizzarsi grazie al referendum costituzionale che, per questa ragione, sin dall'inizio, è stato concepito come un plebiscito sulla propria persona e sul governo.
Soltanto il risultato delle amministrative del giugno 2016, in cui il Movimento 5 Stelle è prevalso sul Partito Democratico in diciannove ballottaggi su venti, ha indotto quanti avevano patrocinato sino a quel momento non soltanto il "combinato disposto" tra l'"Italicum" e la riforma, ma addirittura sostenuto la forzatura della fiducia per varare la legge elettorale, a rivedere le loro posizioni in merito.
In realtà, un sistema tripolare si era già delineato chiaramente nelle elezioni politiche del 2013, ma le richieste di cambiamento della legge elettorale si sono affermate soltanto dopo che è emerso il timore che l'"Italicum" potesse determinare una vittoria del Movimento 5 Stelle, un'eventualità vissuta da troppi come l'arrivo dei "nuovi barbari".
Simili a quelli celebrati nel 1908 dal poeta greco Costantino Kavafis in un componimento che si sarebbe trasformato nell'architrave ideologico delle classi dirigenti della Guerra fredda, allorquando i barbari assunsero il volto dei comunisti: "Perché mai tanta inerzia nel Senato?E perché i senatori siedono e non fan leggi?" si chiedeva il poeta. Per poi amaramente concludere: "S'è fatta notte, e i barbari non sono più venuti [...] E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?Era una soluzione, quella gente".
Perché sembrerebbe che la democrazia italiana non sappia vivere senza evocare lo spettro di sempre nuovi barbari alle porte e una continua cultura dell'emergenza e dell'esclusione, accompagnata da una mediocre e insistita strategia della paura funzionale a creare tensione, di cui in queste ore stiamo vedendo l'attuazione. Appunto per questo motivo, essa resta debole e fragile, una "democrazia difficile" come amava definirla Aldo Moro, che ha perso la vita per avere provato a renderla più mite e civile.
È molto triste e segno di una grave arretratezza politica e culturale dover constatare che in questi mesi quanti non condividono questa riforma costituzionale si debbano sentire colpevoli di voler gettare il Paese nel baratro dell'instabilità, come fossero bambini da spaventare e non cittadini liberi e consapevoli.
In verità, oggi sempre più persone si stanno rendendo conto di uno strano quanto imprevedibile paradosso: una vittoria del Sì al referendum potrebbe agevolare, invece che scongiurare, un'affermazione dei Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni politiche.
Si favorirebbe, infatti, il mantenimento dell'"Italicum" e dunque la permanenza del meccanismo del ballottaggio, che, come è stato argutamente commentato, rischia di trasformare Renzi nel "Fassino d'Italia". Del resto, proprio il ballottaggio è il cuore ideologico di questa legge elettorale, come è stato candidamente ammesso, con forse impolitica ma apprezzabile serietà professionale, dal suo teorizzatore, il professor Roberto D'Alimonte, il quale ha dichiarato che "le due riforme sono strettamente connesse. Tanto connesse che vivranno o cadranno insieme" (Il sole 24 ore, 2 ottobre 2016). Per l'appunto. E il 4 dicembre votiamo No, senza paura.

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