mercoledì 16 novembre 2016

L’ultima capriola di Renzi: il finto “veto” sul bilancio europeo



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contropiano
All'ultima curva, prima del traguardo referendario che si annuncia per lui catastrofico (anche una sconfitta di misura lo sarebbe), Matteo Renzi si lancia in un sorpasso azzardato che potrebbe mandarlo fuori pista in ogni caso.
Ha infatti mandato il suo fido sottosegretario alla presidenza del consiglio, Sandro Gozi, a minacciare il veto sul bilancio dell'Unione Europea. Tecnicamente si tratta solo di una “riserva formale” sulla revisione del bilancio, tuttora in corso. Un ditino alzato, dunque, non un “veto” dagli effetti destabilizzanti. Ma è stato venduto dallo stesso Gozi e da Renzi come un'atomica sul tavolo di Bruxell
es.
L'intento è così trasparente che anche il giornale di Confindustria – come potete leggere qui sotto – è obbligato a sottolinearne la natura e i rischi.
Nessuno ovviamente crede che quel ditino alzato si trasformerà in un niet. Si tratta di una mossa solo elettorale, che durerà fino al 4 dicembre, all'orario di chiusura delle urne. Ma anche solo il fatto che un primo ministro di un paese-chiave della Ue sia costretto a giocare la carta dell'”antieuropeismo” la dice lunga sulla crisi di legittimità che l'Unione Europea – la struttura semi-statuale, centralizzata e burocratica, non “l'Europa” della retorica – sta vivendo agli occhi delle popolazioni di tutto il Vecchio Continente. E chiunque voglia i voti – finché saranno le elezioni il criterio di legittimità di un governo – se li deve conquistare distinguendosi dal coro “europeista”, che infatti conta sempre meno vocalist.
Il margine di manovra per Renzi è dunque strettissimo: “deve” fare la parte di quello che batte davvero i pugni sul tavolo. Ma non può batterli davvero, altrimenti – se per caso dovesse vincere il “sì” e dunque restare in sella – si troverebbe di fronte un atteggiamento assai meno tollerante da parte delle istituzioni di Bruxelles, che fin qui hanno fatto da spalla compiacente alle mattane del “solito italiano”.
Ma anche se soltanto recitato, quel copione euroscettico cerca in qualche misura di corrispondere a un sentimento ormai dilagante, in Italia come altrove. E' infatti definitivamente finita la stagione in cui le figure sociali “progressiste” potevano identificarsi ciecamente con “l'Europa”, vissuta come l'ambiente civile che avrebbe permesso anche alla disastrata Italia (tra Berlusconi e le mafie) di superare le sue tare storiche. Un quarto di secolo di “parametri di Maastricht” e 15 anni di moneta unica, dieci di austerità, hanno sradicato quella fiducia basata su chiacchiere e propaganda, squadernando una realtà ben più triste.
Naturalmente, se tutti i principali protagonisti delle vite politiche nazionali – persino in Germania – debbono ormai fare i conti con l'impopolarità della Ue, ne deriva che quell'istituzione sovranazionale viene sottoposta a pulsioni centrifughe di potenza crescente.
Non c'è insomma spazio per “un'altra Europa” se non smantellando l'Unione Europea costruita sui dedierata del capitale multinazionale.
Basta ricordarsi, o almeno accorgersi, che su questo fronte si muovo due opzioni radicalmente opposte: quella del capitale “impossibilitato a diventare multinazionale” (per limiti dimensionali o di mercato) e i lavoratori di qualsiasi tipologia contrattuale.
Renzi, all'ultima curva, prova a fascinare seguaci e sponsor di Salvini, per vincere il referendum. Dopo di che, chiunque sieda a Palazzo Chigi avrebbe un potere blindato e assoluto.
Questa la ragione principale per cui dobbiamo continuare a spingere per non impossibile vittoria del NO.
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L’eco di Brexit e Trump, Renzi punta alla «maggioranza silenziosa»

Lina Palmerini
A ciascuno la “sua” Brexit, il “suo” Trump. La politica italiana vive la campagna referendaria cercando la luce riflessa delle due elezioni più dirompenti e in questa gara si è buttato Renzi. Con il colpo di teatro sul primo veto al bilancio europeo, prova a incarnare – anche lui – il malessere anti-establishment di cui l'Europa rappresenta un pezzo. Ed è una carta quasi obbligata per il premier: sintonizzarsi con un'onda popolare/populista che punta a destabilizzare alcuni “sistemi”, come la Ue, giudicati socialmente troppo onerosi .
Lanciato come un “veto”, poi corretto come anticamera di un veto, è comunque la prima volta che l’Italia assume un ruolo di contrapposizione in Europa. Colpa del referendum e della campagna in corso, certo, ma soprattutto dei risultati delle ultime due elezioni – Brexit e Trump – che hanno cambiato i connotati di quella che ancora ieri Renzi chiamava “maggioranza silenziosa”. E se in Gran Bretagna e in America questa maggioranza si è rivoltata contro l’establishment e contro gli assetti consolidati, è possibile che accada lo stesso anche da noi. La battaglia di Renzi con Bruxelles sembra avere queste caratteristiche.

Quelle di correggere quell’equazione referendaria che forse non è più vincente per il popolo: quella di un “sì” uguale stabilità quando invece quello che è entrata nel mirino di un’onda popolare/populista è proprio la solidità di alcuni assetti. E quindi quel veto – ieri – sia pure non ancora definitivo voleva avere un effetto destabilizzante. Una scossa al “ramo” europeo a cui nessuno sembra voler rimanere più aggrappato. Bruxelles è diventato ormai un luogo vissuto come troppo oneroso socialmente, quello dove si “scarica” sull’Italia l’emergenza migranti e dove nessuno si fa carico del tema disoccupazione, povertà, sviluppo economico. E di quel luogo il premier non vuole più far parte anche perché ormai in Italia non sono rimasti più paladini d’Europa, se non una ristretta minoranza.
C’è dunque una ragione immediata, diretta, che ha a che fare con il malessere sociale italiano, che con l’immigrazione incrocia anche il tema della sicurezza e del disagio sociale. Questa è la valenza elettorale di un atto come quello di ieri. Ed è infatti finito nel tritacarne dell’opposizione che non ha criticato il merito della decisione del Governo Renzi ma la credibilità del gesto. L’hanno considerato, appunto, solo come un colpo di teatro nella campagna elettorale. «Minaccia i veti ma dice sempre sì», lo accusava Salvini. È solo un bluff ribattevano i 5 Stelle imputando al premier di aver ridotto l’Italia a una colonia dell’Europa. Insomma la gara è tutta nel perimetro dell’anti-europeismo anche se Renzi dice di essere la “terza via” tra la Lega e Monti.
E c’è poi anche l’altra ragione, più simbolica, in questo attacco. Ed è quella che attraverso Bruxelles Renzi prova a incarnare quella voce anti-sistema e a fuggire dall’immagine di establishment a cui lo lega il suo ruolo a Palazzo Chigi. «Vedo Salvini fare il pavone perchè in Michigan o in Ohio ha vinto Trump. Ma chi è il cambiamento e chi è il “sistema” in Italia?», chiedeva il leader Pd al comizio di ieri. Questa è la vera domanda di questa campagna referendaria, la sfida è qui. E ciascuno rimbalza la risposta sul “sì” o sul “no”. Anche a questo serve l’Europa nel duello italiano del premier. A declinare una svolta, a rompere con il passato, a continuare a proiettare sull’Italia l’immagine di se stesso come rottamatore.
da Il Sole 24 Ore

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