giovedì 29 settembre 2016

Marchionne cappottato, reintegrati gli operai di Pomigliano

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NAPOLI La Corte di Appello del Tribunale di Napoli ha ribaltato la sentenza emessa a Nola, disponendo il ritorno in Fca di Mimmo Mignano, Marco Cusano, Antonio Montella, Massimo Napolitano e Roberto Fabbricatore, licenziati due anni fa per aver inscenato il suicidio dell’ad Sergio Marchionne davanti i cancelli dell’azienda, a Pomigliano d’Arco. I giudici, anzi le giudici, Maria Rosaria Rispolo, Giovanna Guarini e Antonietta Savino, hanno disposto che venga applicata la misura più favorevole agli operai prevista dalla legge Fornero, ossia ha condannato il Lingotto «alla reintegrazione dei lavoratori nel pregresso posto di lavoro, nonché al risarcimento del danno nella misura massima di dodici mensilità di retribuzione, calcolate sulla base dell’ultima retribuzione percepita, oltre ai versamenti contributivi, previdenziali e assistenziali». Avrebbero potuto avere 24 mensilità come forma di indennizzo ma senza il ritorno sulle linee, la vittoria sta proprio nel loro reintegro in fabbrica. Che però non sarà immediato, scontato infatti il ricorso di Fca in Cassazione.

Ieri sera festa al presidio in piazza Municipio, a Napoli. Il pomeriggio è passato a studiare la sentenza, depositata ieri. «È la terza volta che vinco contro la Fiat – commenta Mignano -, siamo Davide contro Golia». I cinque vennero licenziati il 20 giugno del 2014. A Pomigliano d’Arco il clima era terribile: tre suicidi e altri tentati suicidi; 316 lavoratori spostati al Wcl, il reparto logistico di Nola rimasto per otto anni senza alcuna missione produttiva; la maggior parte della forza lavoro in cassa integrazione ininterrotta dal 2008. Mignano aveva già due licenziamenti sulle spalle, Cusano uno. Dopo il funerale di Maria Baratto (operaia del Wcl che si tolse la vita con tre coltellate), il 5 giugno 2014 in venti decisero di inscenare con un manichino il suicidio di Sergio Marchionne, a terra indumenti di lavoro cosparsi di vernice rossa, accanto una lettera di pentimento.
Nel manifesto intitolato «Il mio lascito prima del mio ultimo respiro», l’ad chiedeva la riassunzione al Vico (dove si produce la Panda) dei 316 «deportati» a Nola e il perdono per le morti che aveva provocato. Stesso copione qualche ora più tardi a Napoli, davanti la sede Rai. Il 10 giugno all’ingresso 2 del Vico andò in scena il funerale del manichino.
Ricostruendo il periodo drammatico attraversato in Fca a Pomigliano, i giudici concludono che «sicuramente non può ritenersi esorbitante dal legittimo diritto di critica il dissenso manifestato dai reclamanti rispetto alle strategie aziendali».Secondo Fca si sarebbe trattato di un gesto lesivo della dignità dell’ad nonché di istigazione alla violenza, secondo il Tribunale di Nola si sarebbe trattato di «un illegittimo esercizio del diritto di critica, del tutto esorbitante sotto il profilo della continenza sostanziale e formale». Invece, secondo la Corte d’Appello, «la condotta è stata volutamente posta in essere dai predetti, che hanno curato ogni dettaglio della rappresentazione scenica che hanno inteso mettere in atto, al fine di protestare contro le politiche aziendali in tema di lavoro». Secondo i giudici al centro c’è «il tema del legittimo esercizio del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro».
Nella sentenza si fa anche notare che «i lavoratori (tra cui vanno ricompresi quattro degli attuali ricorrenti) sono ininterrottamente sospesi dal lavoro dal 2008; anche il monito rivolto agli eventuali successori dell’attuale ad, di non pensare solo al profitto ma anche al benessere dei lavoratori, rappresenta, a parere di questa Corte, una legittima estrinsecazione della libertà di valutazione e critica dell’altrui operato». In sostanza si è trattato di una rappresentazione scenica macabra, forte, aspra ma comunque protetta dal «diritto di svolgere, anche pubblicamente, valutazioni e critiche dell’operato altrui (anche del datore di lavoro), che in una società democratica deve essere sempre garantito».
Del resto nessuna bugia è stata detta: operai sindacalizzati o con cause in corso o con ridotte capacità lavorative sono finiti in cig a zero ore a Nola, due dei suicidi hanno lasciato testimonianze scritte della loro angoscia provocata dall’incertezza per il futuro in fabbrica. E non c’è neppure istigazione al suicidio, come fa riferimento il Tribunale di Nola, ma solo la protesta per le strategie aziendali, che hanno spinto in depressione molti operai.
La Corte spazza via anche la tesi, sostenuta da Fca e accolta in primo grado, di aver subito un danno morale o materiale: «La diffusione mediatica non era idonea a creare grave nocumento morale all’azienda e all’amministratore delegato proprio perché si trattava di fatti già portati all’attenzione dell’opinione pubblica e comunque di tale danno nessuna prova è stata data da parte datoriale». Nessun dubbio: è stato solo il libero esercizio del diritto di critica dei lavoratori.

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