venerdì 26 agosto 2016

Le tangenti ENI e l'Italia del così fan tutte.

Sono oramai anni che lo scandalo dell'ENI in Nigeria affiora, senza mai sfondare, sulla stampa internazionale e su quella nazionale.  
 

micromega Giuliano Garavini

L'ultima volta, l'inchiesta sulla "madre di tutte le tangenti" è apparsa in un numero speciale de l'Espresso che ha seguito la vicenda a partire dalle rivelazioni contenute nei Panama Papers. In soldoni, l'ENI ha pagato a politici nigeriani con in prima fila l'ex ministro Dan Etete (ma rivoli di denaro sono arrivati anche a dirigenti ai massimi livelli del "cane a sei zampe"), una somma gigantesca pari ad oltre un miliardo di dollari per ottenere una promettente concessione petrolifera offshore (OPL 245). L'Espresso rivela, carte alla mano, che questo episodio non rappresenta che la gigantesca punta di un iceberg, e porta ad esempio tangenti per decine di milioni di euro pagate anche a politici algerini.

Questo episodio di corruzione internazionale senza precedenti dovrebbe figurare per settimane sulle prime pagine dei quotidiani nazionali. Tanto più quando giornali e giornalisti si sono occupati per settimane delle noccioline spese a sproposito dall'ex sindaco di Roma Marino. Che questo (ancora) non succeda è in primo luogo indice del fatto che giornalisti e opinionisti italiani non disdegnano consulenze pagate dal colosso petrolifero, ma soprattutto del fatto che gli editori delle principali testate giornalistiche temono per i mancati introiti pubblicitari, nonché per possibili ricadute giudiziarie.

Dietro la passività dei direttori dei quotidiani nazionali si annidano però convinzioni diffuse, anche se spesso non apertamente palesate, nel popolo italiano. E' di questo retroterra di argomentazioni sbagliate e fuorvianti che mi vorrei occupare.

Il primo di questi pensieri diffusi è che il corruttore, quello che consegna la bustarella, sia in qualche modo meno colpevole del corrotto. Il politico o il funzionario che si lascia corrompere è fatto oggetto degli strali dei giornalisti alla Sergio Rizzo che attaccano puntualmente solo le amministrazioni pubbliche. L'imprenditore che versa la mazzetta sarebbe invece costretto a queste bassezze per tirare a campare.

Non è così. O almeno, non è sempre così. Le grandi imprese, specie se multinazionali, hanno a loro disposizioni fiumi di denaro per comprare paginoni sui giornali e su ogni altro mezzi di comunicazione, per stipendiare un esercito di lobbisti, per foraggiare giornalisti, opinionisti e accademici, quando non per corrompere direttamente, come si è visto nel recente caso di TOTAL a Tempa Rossa. Il problema è che di fronte a questa gigantesca massa di denaro che influenza leggi e legislatori, alimentatasi con le privatizzazione di quasi tutti i settori vitali dell'economia, dalla finanza alle infrastrutture, vi è una politica strutturalmente debole. La politica che fino agli anni '80 era padrona, è diventata ancella. L'unico concreto modo per contenere questo strapotere del denaro è che le grandi imprese vengano governate in modo più democratico e sottoposte a processi più stringenti di scrutinio interno (incluso un peso maggiore dei lavoratori nei processi decisionali e gestionali), e che tutte le reti che costituiscono un monopolio naturale tornino in mano totalmente pubblica, divenendo così più permeabili agli interessi della collettività. La corruzione indica oggi molto più spesso la sfrontatezza del potere economico piuttosto che la capacità di ricatto della politica.

Il secondo pensiero diffuso, molto più insidioso, si può sintetizzare così: in Africa gli affari si fanno con le mazzette e se non ci stai sei fuori dal gioco. In questo c'è sicuramente del vero, e infatti ENI è implicata nello scandalo in Nigeria insieme a Shell, che ha pagato un piccola quota della mazzetta.

Bisogna però capire meglio le ragioni per cui si corrompe e vanno attentamente valutate le conseguenze della corruzione quando la posta in gioco è il controllo sulle risorse naturali.

In Nigeria si è corrotto per appropriarsi di un giacimento a condizioni capestro, e dunque per versare allo Stato nigeriano assai meno del dovuto (a parte il fatto che allo Stato nigeriano non è arrivato nemmeno un dollaro del miliardo sborsato in tangenti). Il giacimento in questione avrebbe dovuto, a norma di legge, rimanere per il 60% in mano nigeriana e solo per il 40% in mano straniera. Pagando la madre di tutte le tangenti l'ENI si è appropriata della totalità di OPL 245, sottraendo potenzialmente al popolo nigeriano una quantità gigantesca di denaro. Se non fosse intervenuto il nuovo Presidente nigeriano a bloccare il tutto, si sarebbe privato un Paese in preda alla guerra civile e al terrorismo, in cui nella maggior parte delle case non vi è elettricità e dove i giovanissimi lavorano a mani nude nelle fogne (l'ho visto con i miei occhi), di enormi proventi. La corruzione, in questo caso, contribuisce solo a rafforzare un'elite corrotta e a tenere sotto scacco quelle istituzioni locali, come la Banca centrale e il Parlamento, in cui rimangono vivi gli anticorpi contro il degrado morale e civile di un popolo.

Nel caso specifico di ENI vale la pena ricordare se è vero che anche il mai troppo ricordato Enrico Mattei utilizzava ogni metodo, lecito e meno lecito, per farsi strada in un Paese produttore a discapito delle grandi multinazionali; è vero anche però che a quei Governi offriva clausole molto più vantaggiose di quelle prevalenti al suo tempo (una partecipazione al 50% nella proprietà del giacimento, che alla fine degli anni '50 era considerata ancora un'eresia dalle Sette sorelle). L'ENI opera oggi in Nigeria per sottrarre la maggior quantità di denaro possibile alle casse dello Stato nigeriano, e lo fa in piena complicità con le altre multinazionali.

Il terzo dannoso pensiero diffuso è quello cui ha dato espressione Feruccio de Bortoli in un recente editoriale sul Corriere della Sera. De Bortoli sostiene che dovremmo abolire la tassa sulle transazioni finanziarie, chiamata comunemente Tobin Tax, introdotta obtorto collo dal Governo Monti nel 2012 come pegno per l'approvazione di tutta una serie di provvedimenti che avrebbero contribuito ad incrementare la miseria sociale. De Bortoli afferma che, seppure in teoria questa tassa potrebbe essere giustificata, siccome gli italiani sono gli unici ad applicarla in modo rigoroso, la Tobin Tax starebbe minando il progetto di fare di Milano un hub finanziario europeo. Il ragionamento à la De Bortoli si potrebbe replicare anche sui diritti del lavoro. Inutile avere l'articolo 18 o orari di lavori più brevi se non li hanno anche gli altri Paesi perché così facendo si mina la produttività e si perdono posti di lavoro. E stesso si potrebbe dire delle norme sull'ambiente. Inutile introdurre la carbon tax o scoraggiare l'uso delle energie fossili visto che se le altre nazioni non applicano le stesse politiche le emissioni nocive non si ridurranno, la temperatura del Pianeta non scenderà, e come risultato saranno solo imprese e cittadini italiani a pagarne le spese.

La logica di De Bortoli sottende la convinzione che il mondo non possa che diventare un luogo sempre più miserevole, e che dunque convenga adeguarsi alle pratiche peggiori per non perdere il treno della competizione globale. Perché non corrompere se lo fanno tutti?

Se si pensa che il mondo, invece che peggiorare possa diventare un luogo più progredito e civile, e si è disposti a battersi in questo senso, allora il primo che avrà allenato il suo sistema finanziario alla Tobin Tax, il primo che avrà applicato norme per migliorare la vita dei lavoratori e rendere il lavoro più stabile, il primo che si sarà adattato ad utilizzare meno combustibili fossili, il primo che avrà stroncato manager che fanno affari corrompendo politici stranieri e si sarà guadagnato così la simpatia e la stima dei popoli, sarà all'avanguardia e, perché no, sarà anche più competitivo nell'economia mondiale.

(24 agosto 2016)

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