mercoledì 20 luglio 2016

GENERAZIONE ANTI-G8 NEL GIUSTO MA SCONFITTI.


Giornalista politica, L'Huffington Post
G8

Quindici anni esatti. Chi c'era, porta ancora le ferite. Genova 2001 con il suo variegato anti-G8, fatto di proteste e di lutti, contestazione e repressione, scontri e torture, ha forgiato una generazione: infelice. Delusa. Perché Genova è stata insieme l'ultimo appello alla politica e l'ultima fiammata di politica. Una last call per cambiare un modello di globalizzazione squilibrato. Il movimento di Genova se ne era accorto. Ora lo dicono tutti. Nel frattempo, l'ultimo appello è caduto nel vuoto e il tonfo ancora fa rumore. Il dramma è collettivo: sia di chi c'era che di non era a Genova. Il ripiego sul privato è una conseguenza più che una causa. Ecco perché non mi convince affatto il tweet di Francesca Archibugi:
Francesca Archibugi @farchibugi
Carlo Giuliani oggi ha 38 anni. Lavoro, figli, giornate belle e brutte come tutti. Ride del ragazzino con l'estintore. Non è più estremista.

A Genova c'era ancora la speranza. Sì, quella roba un po' ingenua che portava a credere "in un altro mondo possibile", come si diceva allora. A ripeterlo ora, quasi ci si imbarazza.
Sembra una frase naif, da 'fessi' che ancora ci credono o da sognatori che non troveranno mai posto da nessuna parte, disadattati sociali più o meno condannati alla precarietà: se non di lavoro, esistenziale. Per dire che Genova, per tantissime persone - ambientalisti e cattolici, Disobbedienti, 'frikkettoni' e a loro modo anche i black bloc - è stata l'ultima illusione. Politica. O magari ottica, visti i 40 gradi all'ombra nei giorni del G8 2001. Chiamatela come volete: ma è stata l'ultima illusione di un'intera generazione nata negli anni '70, al massimo primi anni '80.
L'ultima utopia e insieme l'ultima prova di fiducia nella possibilità di stare insieme in un movimento forte perché internazionale, globale e critico, che da Seattle a Genova provava ad avvertire sui rischi di una globalizzazione fatta male, non uguale per tutti, ingiusta. L'ultima prova di solidarietà e senso della collettività prima che il mondo cominciasse a disintegrarsi.
Successe pochi mesi dopo: 11 settembre 2001. Una data che ha cambiato la storia e l'agenda globale. Con le Torri Gemelle vennero giù i sogni. Le parole d'ordine diventarono terrore e guerra. Il movimento di Genova provò a sintonizzarsi sulla nuova emergenza: la pace. Ma le bombe sono state più forti dei cortei. Tanto da silenziare tutte le ricette prodotte da quello strambo movimento per un mondo più giusto, guardato a vista e anche sbeffeggiato. Come successe alla povera Tobin tax, per dirne una, la tassazione sulle transazioni finanziarie pensata da James Tobin negli anni '70, rinverdita proprio dal movimento di Genova, derisa, salvo poi rientrare nei dibattiti ufficiali della politica. Senza decisioni globali, peraltro.
Dal 2001 in poi, solo cocci per la politica, per la democrazia. Ovunque. La crisi dei mutui subprime del 2008 negli Usa ha cominciato ad accendere qualche lampadina in giro: forse la generazione Genova non aveva tutti i torti? La crisi economica globale che ne è seguita ha fornito qualche risposta: nel movimento di Genova c'erano delle verità o almeno delle premonizioni.
E ora tutti parlano dei guasti della globalizzazione, tutti a dire che ci sono troppe disuguaglianze, che la finanza si è mangiata tutto ma proprio tutto. Da leader europei diventati di colpo anti-austerity a quelli nostrani, da Martin Schulz a Massimo D'Alema a Giulio Tremonti: c'è la coda per le critiche e le autocritiche. Fino al clamoroso mea culpa dell'Economist, bibbia liberista che dopo la Brexit sentenzia: "La responsabilità è dell'elite che ha sostenuto la globalizzazione, compresi noi".
Nel frattempo però si è frantumato un monte di aspettative. La generazione Genova non è entrata nelle stanze dei bottoni della politica: incapacità, impossibilità, un misto di entrambe, direi. Non è questo il punto. Almeno non solo. Il punto è che le parole d'ordine di quel movimento risuonano come le profezie di Cassandra: inascoltate. Il punto è che le "elite", come le chiama l'Economist, non le hanno raccolte e hanno continuato a inseguire un'agenda fatta di guerre e disuguaglianze. Salvo poi accorgersi che il sistema rischia di non reggersi più nemmeno per quell'1 per cento di popolazione che da solo possiede metà delle ricchezze dei più poveri.
E così, in questi 15 anni, tanti hanno detto addio alla politica. Che nel frattempo ha acquisito solo connotati negativi. In Italia c'è chi si aggrappa al Movimento 5 stelle, chi ancora cerca residui di senso sociale nel Pd, soprattutto ci sono i tanti votati all'astensionismo, i tantissimi che non credono più a nulla o cercano un po' di senso in famiglia, nel privato. Perché il collettivo è ormai annientato: delusione, rabbia e diffidenze. Nel resto del mondo la situazione è simile: scintillano le illusioni di un Farage o di un Trump, fiato corto senza senso.
E allora, in un mondo impazzito tra Jihad e casi di psichiatria, 'kamikaze con la laurea' e fanatici assassini dell'ultim'ora, colpi di stato e purghe nel silenzio assordante delle istituzioni, prendersela con Giuliani e il suo mancato futuro da padre è quanto meno riduttivo. Oppure è un scelta sensazionale per fare click: questo sì.

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