martedì 24 maggio 2016

USA. Elezioni Presidenziali. Bernie Sanders, l'ala sinistra del possibile.

Come è potuto succedere che un anziano di 74 anni abbia entusiasmato soprattutto l’elettorato più giovane? In Sanders i giovani hanno visto un candidato lontano anni luce dal funzionamento corrente dell’economia e della società. Anticipiamo la prefazione di Marco D'Eramo all'edizione italiana di “Un outsider alla Casa Bianca”, l'autobiografia politica di Bernie Sanders, scritta con Huck Gutman, in questi giorni in libreria per Jaca Book.



micromega di Marco D'Eramo

Largo in media 6 km, il lago Champlain, dal nome dell’esploratore francese Samuel Champlain (1574-1635), si estende per 200 km da sud verso nord fino a sconfinare in Québec, canada, dove il suo emissario sfocia nel maestoso fiume San Lorenzo. Attorniato da boschi sterminati che ricoprono gli Adirondack e le Green Mountains (pochi europei sanno che questa è una delle zone più selvagge, disabitate e boscose degli uSA), il lago segna il confine tra lo Stato di New York a ovest e quello del Vermont a est. Sulla sua riva orientale si adagia la graziosa cittadina di Burlington, che con i suoi 40.000 abitanti è la più popolosa  del Vermont  (ma non la sua capitale, che è Montpelier). Molti anni fa ci soggiornai per una settimana ed era quasi impossibile immaginare che quest’agghindato, benestante centro urbano sarebbe stato all’origine di quella scossa che nel 2016 per quattro mesi ha destabilizzato il sistema politico statunitense, ha fatto tremare l’establishment, e ha rischiarato il plumbeo orizzonte delle sinistre mondiali. L’esito era segnato, ma questa scossa ha dato un segnale chiaro, ha fornito un’indicazione nitida per un possibile percorso alternativo. Un segno che va indagato, a partire dal porticciolo sul lago Champlain.

È qui infatti che nel 1980 Bernie Sanders si candidò alla carica di sindaco, ed è da quella campagna elettorale che, dopo un breve antefatto, prende davvero il via la sua autobiografia politica che presentiamo ai lettori italiani. contro ogni previsione, nel 1980 Sanders fu eletto e divenne sindaco, e fu rieletto per altri tre mandati (biennali), fino al 1988, quando si candidò come indipendente a deputato al congresso degli Stati Uniti a Washington: il sistema politico americano è complicato da tradurre perché bisogna distinguere i deputati (e senatori) di uno Stato che siedono nel congresso federale di Washington, e invece deputati  e senatori del parlamento  di quello Stato che siedono nella capitale statale (Montpelier nel caso del Vermont).

Le elezioni del 1988 Sanders le perse di misura, ma poi vinse le successive nel 1990 e fu rieletto per altre sette volte consecutive, l’ultima nel 2004: il mandato dei deputati degli Stati uniti è biennale, mentre quello dei senatori dura sei anni. Senato a cui nel 2006 Sanders si candidò (ogni Stato USA, indipendentemente dalla sua taglia e popolazione, manda a Washington due senatori), e – ancora contro ogni previsione – vinse col 55% dei voti: come racconta John Nichols nella sua utile postfazione, il Vermont era stato una roccaforte repubblicana per oltre un secolo e mezzo. Sanders è stato rieletto con un margine ancora superiore nel 2012, ed è storia presente l’incredibile cavalcata nei primi quattro mesi della campagna per la nomination democratica alle elezioni presidenziali del 2016.

Uso la parola «incredibile» in senso proprio. Perché, a stare alle lezioni impartite dall’ultimo mezzo secolo di campagne elettorali statunitensi, Bernie Sanders aveva tutto contro di sé, non avrebbe dovuto nemmeno presentarsi o, candidatosi, avrebbe dovuto esser spazzato via immediatamente. Perché viene da uno Stato del nord-est  degli USA, è ebreo, non appartiene a nessuno dei due grandi partiti ed è socialista. Ognuno di questi elementi basterebbe ad affossare la più promettente delle candidature, e quella di un settantaquattrenne politico di lungo corso non era tale.

Negli USA, un candidato che è stato sindaco di Burlington è come un valdese di Torrepellice che voglia fare campagna a Napoli o a Bari. Per di più, almeno da dopo John F. Kennedy, la politica statunitense è stata dominata dal Sud: Lyndon Johnson e George W. Bush jr. texani, Richard Nixon e Ronald Reagan californiani, Jimmy Carter georgiano, Bill Clinton dell’Arkansas: dal 1963 al 2016, su 53 anni, solo per 14 gli USA sono stati presieduti da Presidenti non del sud: Gerard Ford (però mai eletto, e salito al potere grazie all’impeachment di Nixon), George Bush padre, e Barack Obama.

Non solo, ma la questione meridionale ha dominato tutto il dibattito politico statunitense, tanto che la svolta politica impressa da Ronald Reagan alla fine degli anni ‘70 fu chiamata la Southern strategy: ricordiamo che nel Sud, quello democratico era storicamente il partito degli schiavisti (l’emancipatore Abraham Lincoln era repubblicano) e per questo l’elettorato bianco meridionale (nostalgico dei bei tempi schiavisti) aveva sempre votato democratico; solo negli anni ‘30 del XX secolo, con Franklin Delano Roosevelt, i democratici avevano coinvolto i neri nel proprio apparato, e solo negli anni ‘60 avevano sostenuto le lotte per i diritti civili, ma proprio quell’appoggio aveva alienato gli elettori bianchi meridionali dai democratici e li aveva gettati nelle mani dei repubblicani.

La campagna reaganiana per la riduzione delle tasse aveva (e ha) negli Stati Uniti un risvolto razziale che è difficile da cogliere in europa: chiedendo di far pagare meno tasse agli abbienti e soprattutto  proponendo che gli introiti fiscali siano spesi là dove sono stati incassati, e non altrove (localismo fiscale), in realtà si chiede che le tasse pagate dai benestanti bianchi non vadano a finanziare scuole, ospedali, stato assistenziale per i neri disagiati: ecco in cosa consiste la Southern strategy reaganiana (in italia questa strategia è stata tradotta dalla Lega Nord in regionalismo fiscale in chiave «anti-terrona»). Più recentemente, il successo del Tea Party sarebbe incomprensibile senza tenere conto della sua componente razziale.

In secondo luogo, Sanders è nato nel 1941 a Brooklyn, New York city, da genitori ebrei emigrati dalla Polonia, il padre venditore di vernici. Contrariamente al luogo comune, negli Stati uniti è forte e diffuso un pregiudizio sugli ebrei, come su altre minoranze: così come prima di John Kennedy (origine irlandese) non c’era mai stato un Presidente cattolico e discendente di white ethnics (europei non anglosassoni), così non c’è mai stato un Presidente di origine italiana o greca (Michael Dukakis fu sconfitto da George Bush padre, mentre come candidata alla vicepresidenza, l’italo-americana Geraldine Ferraro fu sconfitta, insieme a Walter Mondale, da Ronald  Reagan e George Bush sr.). Come i discendenti di italiani e greci, gli ebrei possono essere governatori, senatori, sindaci, ma non Presidenti degli Stati uniti. In 240 anni di storia americana, Sanders è il primo ebreo che abbia mai vinto una primaria per la nomination presidenziale.

In terzo luogo Sanders non appartiene a nessuno dei due grandi partiti: la conventio ad excludendum regna sovrana nel sistema politico statunitense: i tentativi di fondare un terzo partito sono sempre stati respinti e neutralizzati. i vari candidati «indipendenti»  hanno sempre avuto vita difficile, proprio per le regole elettorali studiate apposta per mantenere saldamente alle redini della politica uSA il duopolio democratico/repubblicano, non ultimo il sistema rigidamente uninominale. Nella storia del dopoguerra si è visto come i vari candidati indipendenti abbiano raccolto poco: il 13,5% George Wallace nel 1968, il 18,9% Ross Perot nel 1992 (miglior risultato di sempre per un candidato indipendente, davanti al 16,6% ottenuto dal progressista Robert la Follette nel lontano 1924), il 2,4% da Ralph Nader nel 2000. Ma lo stesso Ross Perot, pur col 18,9% dei voti popolari non era riuscito ad avere nessun «Grande elettore» [1]. È questa la ragione per cui Bernie Sanders, pur essendo indipendente, ha deciso di non presentarsi come candidato indipendente alle presidenziali, ma di partecipare alle primarie democratiche, perché queste gli avrebbero offerto una «esposizione» mass-mediatica infinitamente più efficiente.

Infine Sanders si è sempre dichiarato socialista nel senso delle socialdemocrazie europee. Ora, fin dall’800 negli uSA c’è stato un fortissimo pregiudizio antisocialista: con interventi di milizie private della Pinkerton contro scioperanti e manifestanti, vere e proprie persecuzioni nei confronti del sindacalismo degli industrial Workers of the World  (gli wobblies), imprigionamento del leader socialista eugene debs. Ma tutto ciò fu nulla in confronto all’isteria generata dagli anni ‘50 dalla guerra fredda, dal maccarthismo, dalla caccia al nemico interno, alle quinte colonne. Ovunque quel termine che cominciava con «S» era diventato una parolaccia. Presentarsi come candidato affermando di essere socialista era come concorrere a un posto di maestro elementare dicendo di essere pedofilo.

Insomma Bernie Sanders aveva tutto per essere liquidato già ai primi round, come era successo nel 2004 a un altro politico del Vermont, il progressista ex governatore democratico Howard Dean che si ritirò dopo tre successive sconfitte in Iowa, New Hampshire e Winsconsin. invece, anche se alla fine la favola si è conclusa, nel frattempo Sanders è riuscito a vincere le primarie in ben 15 Stati (oltre che tra i democratici residenti all’estero), in un filotto di successi che non si era mai visto.

Allora il punto non è capire perché alla fine Sanders abbia perso, ma spiegare come mai un politico del nord, ebreo, indipendente e socialista abbia  potuto  far tremare una candidata  dell’establishment, così ben finanziata, così conosciuta, così esperta come Hillary Clinton, ex first lady, ex senatrice dello Stato di New York, ex Segretaria di Stato. Come è potuto  succedere che un anziano di 74 anni abbia elettrizzato ed entusiasmato proprio l’elettorato più giovane?

In primo luogo, paradossalmente è stata la cronologia a venire in soccorso a Sanders: non è un caso se il 71% dei giovani che sono andati a votare alle primarie democratiche  hanno scelto Sanders, con punte dell’86% in Nevada, dell’84 in New Hampshire, dell’80% negli Stati del Midwest [2].

Perché questi giovani sono i cosiddetti Millennials, nati o cresciuti quando l’Unione sovietica era ormai un ricordo. Il muro è crollato 27 anni fa, l’URSS si è dissolta 25 anni fa. Chiunque abbia meno di 30 anni non ha più un ricordo personale del comunismo sovietico, dei Gulag, dello stalinismo. A fare facile ironia si potrebbe dire che per questi giovani il socialismo è qualcosa di esotico, di diverso, una forma di aromaterapia della politica.

Ma vi è un’altra ragione per cui i giovani hanno votato in massa per il più vecchio tra i candidati in lizza nelle primarie, ed è la coerenza delle sue posizioni. A differenza di Hillary Clinton, Sanders non ha mai votato a favore della guerra in Iraq; a differenza di Barack Obama, non è uno che promette di chiudere Guantanamo  e dopo 8 anni quella vergogna sta ancora lì; né è uno che scende a patti con le banche. Non che Sanders non mercanteggi mai compromessi: sulla questione – nevralgica negli Stati Uniti – del possesso delle armi, la sua posizione è stata sfumata (il Vermont è uno Stato di cacciatori); sulla criminalità, nel 1994 votò a favore della legge clintoniana che ha riempito le prigioni statunitensi. Ma in un sistema in cui i politici fanno la fila per mendicare favori e fondi dai banchieri e dalla finanza, Sanders ha sempre tenuto un linguaggio che ricorda quello di Franklin Delano Roosevelt.

Rispondendo a Jeff Immelt, amministratore delegato di General Electrics (305.000 dipendenti, 120 miliardi di dollari di fatturato, 6,2 miliardi di dollari di profitto) che gli aveva dato del «bugiardo», e a Lowell McAdam, amministratore delegato del gruppo Verizon (177.000 dipendenti, 131 miliardi di dollari di fatturato, 17,8 miliardi di dollari di profitto) che aveva definito contemptible, «disprezzabili», le sue opinioni, il 13 marzo Sanders aveva twittato «io non voglio l’appoggio di McAdam, immelt e i loro amici miliardari, ben venga il loro disprezzo – I welcome their contempt».

Come non ricordare le frasi che 80 anni prima aveva pronunciato  F. D. Roosevelt nel comizio di chiusura della sua campagna elettorale del 1936? «Noi abbiamo dovuto combattere  con i vecchi nemici della pace, con i monopoli industriali e finanziari, con la speculazione, con la spregiudicatezza bancaria... costoro avevano cominciato a considerare il governo degli Stati Uniti come una mera appendice dei propri affari. E noi sappiamo che il Governo del denaro organizzato è pericoloso esattamente quanto il governo del crimine organizzato. e mai prima nella nostra storia queste forze sono state tanto unite contro un candidato come sono schierate oggi. Sono unanimi nell’odio nei miei confronti – and I welcome their hatred. “Ben venga il loro odio”».

Oggi questi toni verrebbero tacciati subito di «populismo».

Ma certo Sanders non avrebbe colto di sorpresa i politologi di tutto il mondo se la sua campagna del 2016 non fosse stata preceduta dal movimento Occupy a cavallo tra il 2011 e il 2012. Quel movimento è stato accusato di essersi evaporato senza lasciare traccia, ma un’eredità invece ce l’ha consegnata, ed è quella di avere ridato legittimità al problema  della disuguaglianza, alla reazione del 99%  della società contro la sfacciata ricchezza dell’1%.

Il voto per Sanders ha espresso l’indignazione (l’equivalente statunitense degli Indignados spagnoli) dei giovani di fronte allo strapotere delle banche, di fronte alla doppia legalità, una che vale per i comuni cittadini e una che vale per Wall Street e per la grande finanza che può sperperare miliardi di dollari e che comunque non pagherà mai perché sarà sempre salvata da uno Stato complice [3]. Per usare una bella espressione citata da John Nichols nella sua postfazione, in Bernie Sanders i giovani hanno visto «l’ala sinistra del possibile». Un’ala sinistra lontana anni luce dal funzionamento corrente  dell’economia e della società.

Ed è questa vera e propria alienazione dell’elettorato rispetto all’establishment della finanza e della politica che motiva le inattese performances di Sanders e, ancor più, di Donald Trump, nelle primarie del 2016.

Guardiamo però questi due fenomeni da una prospettiva più distaccata, senza farci distogliere dal capello finta carota dell’uno e dall’entusiasmo giovanile dell’altro. Va ricordato che in campo repubblicano l’improbabile candidatura di Trump era stata preceduta dall’ancora mal studiato movimento del Tea Party, e prima ancora dall’altrettanto improbabile apparizione dell’alaskana Sarah Palin nel 2008, e poi dalla balzana candidatura  del mormone Mitt Romney nel 2012 (un mormone ha meno probabilità di essere eletto negli USA di un comunista omosessuale). E che in campo democratico, la comparsa di Sanders era stata preceduta dal ricorso a un nero (Obama) e/o a una donna (Clinton), ambedue figure improbabili rispetto alle regole classiche del sistema politico statunitense.

Ciò vuol dire che in ambedue i grandi partiti negli ultimi dieci anni è stata chiara la percezione di una crisi profonda del sistema politico USA. un sistema anacronistico, ottocentesco, pensato per quando  le campagne elettorali si facevano a cavallo o in strada ferrata, solo tra notabili. L’idea che i deputati  siano eletti ogni due anni e che per di più ogni campagna elettorale sia preceduta da un’altra estenuante campagna per le primarie, fa sì che il sistema viva in campagna permanente. il meccanismo delle primarie presidenziali che agonizzano per quasi sei mesi è un altro anacronismo. il sistema dei Grandi elettori che inquina il voto popolare non rispecchia ormai più la realtà antropologica degli Stati uniti. il finanziamento della vita politica distorce a tal punto la volontà popolare da stravolgerla, soprattutto dopo la sentenza della corte suprema del 2010 Citizens United vs. Federal Election Commission che ha dato via libera alla più totale deregulation del finanziamento della politica da parte degli interessi e dei patrimoni privati.

Ma le magagne di questo sistema non sarebbero venute alla luce e non si dimostrerebbero così ingestibili senza la grande crisi iniziata nel 2008, che ha esasperato gli effetti negativi della globalizzazione sui cittadini, almeno quelli del primo mondo. Ormai anche il mondo della finanza teme che questi effetti negativi possano ritorcersi contro di sé come un boomerang e cerca di correre ai ripari, se è vero che si preoccupa persino un personaggio cinico e arrogante come Larry Summers che da economista capo della World Bank divenne famoso per aver suggerito in una nota interna di dislocare le imprese inquinanti in Africa; da segretario del Tesoro di Bill clinton si distinse per aver gestito la disastrosa privatizzazione dell’economia ex sovietica in Russia; poi da consigliere economico di obama, si fregiò di aver appoggiato il condono per le banche che avevano causato il grande crack del 2008. Ebbene, questo stesso personaggio scriveva il 10 aprile 2016 sul «Financial Times»: «Sta prendendo forma una rivolta contro l’integrazione globale.

Tutti e quattro i principali candidati alla presidenza degli Stati uniti – Hillary clinton, Bernie Sanders, Donald Trump e Ted Cruz – tutti sono contrari alla principale iniziativa di libero commercio di questo momento, la Trans-Pacific Partnership. Le proposte di Trump, il candidato repubblicano in testa, di murare fuori il Messico, abrogare gli accordi commerciali e perseguitare i musulmani sono molto più popolari di quanto sia lui stesso. Il movimento a favore di un’uscita inglese dall’Unione europea riceve un appoggio significativo. Sotto pressione per l’afflusso di rifugiati, l’impegno a un’Europa senza frontiere sta sfaldandosi...

Certo, dietro quest’opposizione alla globalizzazione c’è una parte sostanziale d’ignoranza… Però, il nucleo della rivolta contro l’integrazione globale non è l’ignoranza. È il sentimento, non del tutto infondato, che quest’integrazione sia un progetto realizzato dalle élites per le élites, con scarsissima considerazione per gli interessi della gente ordinaria – gente per cui il programma della globalizzazione è pianificato dalle grandi compagnie che giocano gli Stati l’uno contro l’altro.
Questa gente legge le rivelazioni dei Panama papers e conclude che la globalizzazione offre ai pochi fortunati opportunità per eludere ed evadere le tasse che non sono accessibili agli altri. E vede la disintegrazione che accompagna l’integrazione globale, perché le cittadinanze soffrono quando i grandi datori di lavoro cedono di fronte alla competizione straniera».

Perciò, seppure in modo diverso e inconciliabile, i diversi fenomeni che scuotono gli Stati uniti e l’Europa, sono tutti segni che il progetto di globalizzazione è arrivato al redde rationem nel primo mondo (diverso, ma non troppo, sarebbe il discorso per le economie cosiddette emergenti): si sta rivelando una pia, e micidiale, illusione l’idea che i ceti medio-bassi del primo mondo possano non essere troppo penalizzati dall’integrazione mondiale del capitale. Non solo, ma sia negli Stati Uniti che in Europa, i sistemi politici stanno scricchiolando in modo sinistro: ovunque la loro legittimità è in crisi, ovunque il contenuto delle elezioni è svuotato, ovunque la democrazia sta riducendosi a vuoto rituale, a palcoscenico su cui sono mandati a recitare pagliacci. Sanders non ha vinto, ma ha dimostrato che si può lottare, con risultati anche al di là di ogni aspettativa, e che la via per «l’ala sinistra del possibile» non è ancora del tutto preclusa, e non solo sul lago Champlain.

NOTE

[1] Alle elezioni presidenziali, conta ogni singolo Stato: chi vince in uno Stato (supponiamo il Texas), anche con solo il 50,1%, ottiene tutti i Grandi elettori che il Texas esprime: i grandi elettori sono 538, pari al numero dei parlamentari (100 senatori e 435 deputati) più tre elettori per il distretto federale di Columbia (in cui si trova la capitale Washington), perciò il loro numero è solo in parte rappresentativo della popolazione dei vari Stati. Ed è il consesso di questi Grandi elettori ad eleggere poi il Presidente degli Stati Uniti. Può quindi succedere che, se vince in pochi Stati con una maggioranza schiacciante e perde in molti Stati solo per un pelo, un candidato riceva la maggioranza dei voti, ma la minoranza dei Grandi elettori e perda pur essendo magari Stato plebiscitato.

[2] «The Independent», 18 marzo 2016.

[3] Uno dei malintesi più frequenti col linguaggio politico statunitense è il significato della parola government: poiché negli USA il termine State si riferisce ai singoli Stati (Minnesota, California, Florida), la parola «statale» indica tutto ciò che è relativo ai singoli States. Quindi, per indicare ciò che invece è relativo allo Stato federale, alla struttura di Washington, si usa la parola government che perciò non vuol dire «governo», bensì «Stato» in senso europeo: così il termine Ong non vuol dire «organizzazione non governativa» (dove «governativa» sembrerebbe determinata dal cambiare dei governi in carica), bensì «organizzazione non pubblica».

(23 maggio 2016)

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