lunedì 23 maggio 2016

Dipendenti PA, l’età media supera il tetto dei 50 anni

Solo lo 0,9% è under 25 contro il 5% di Francia e Regno Unito
Testata: Il Sole 24 Ore
Di Gianni Trovati
Un colosso immobile, che pian piano si consuma e invecchia senza essere governato. Si mostra così la pubblica amministrazione alla vigilia dell’attuazione della riforma Madia, che dopo il primo pacchetto di decreti ora all’esame del Parlamento (tranne la trasparenza, appena approvata in via definitiva) attende il secondo gruppo, tra cui spicca la riforma dei dirigenti e il testo unico del pubblico impiego.
Età record
Ma per capire meglio la polemica che torna a riaccendersi su riforma e contratti è utile sapere che cosa è successo fin qui. Il confronto europeo, che nell’analisi realizzata da ForumPa guarda agli ultimi anni della pubblica amministrazione italiana in rapporto alle dinamiche registrate negli altri paesi (con focus puntuali su Francia e Regno Unito), si presta a essere riassunto in modo impietoso. I blocchi ripetuti su turnover e contratti danno alla Pa italiana il record dell’età media dei dipendenti, destinata a sfondare quest’anno la barriera dei 50 anni, ma non hanno alleggerito il peso economico degli uffici pubblici sui nostri conti. La flessione della ricchezza nazionale, che nel 2015 è faticosamente ritornata ai livelli del 2008 dopo la doppia caduta di questi anni, ha annullato gli effetti dei tagli pesanti a cui la Pa è stata sottoposta. Nel 2007 l’Italia dedicava agli stipendi pubblici il 10,9% del Pil e oggi gira il 10,6%: un effetto praticamente nullo, tanto più se paragonato all’entità degli sforzi, realizzati attraverso un inedito congelamento contrattuale durato sette anni, che ha imposto alla fine l’intervento della Corte costituzionale, e spazi assunzionali ridotti al lumicino, che hanno svuotato gli uffici pubblici in modo lineare.

Oggi la Pa italiana arruola meno del 15% degli occupati totali (a loro volta pochi), mentre lo stesso indicatore sfiora il 20% nella media Ocse, arriva al 25% nel Regno Unito e tocca il 35% nel Nord Europa. Come capita sempre quando le sforbiciate sono uguali per tutti, a soffrire di più sono state le strutture più leggere, a partire dai tanti Comuni piccoli e medi chiamati a fare i miracoli per ricomporre organici sempre più stiracchiati.
Tra le vittime dell’austerity pubblica, poi, ci sono i giovani: meno di un dipendente su mille ha meno di 25 anni contro il 5% abbondante dei paesi “concorrenti”, solo il 7% è nella fascia tra 25 e 34 anni (negli altri paesi questo gruppo vale il triplo), mentre gli over 50 sono ormai la maggioranza.
«Il Paese che cambia impone di cambiare anche alla Pa - taglia corto Carlo Mochi Sismondi, presidente di ForumPa e curatore della ricerca -: sperare di portare la Pa a rispondere ai nuovi bisogni con un’amministrazione fatta di vecchi giuristi e immaginare questo passaggio attraverso le leggi ci destina al fallimento. Servono meno leggi e più manuali; meno giuristi e più ingegneri, economisti ed esperti di lavoro in rete; meno adempimenti e più coraggio».
Il peso dei costi
Dal confronto con i big dell’Europa, in realtà, la pubblica amministrazione di casa nostra esce meno malconcia di quanto potrebbero pensare i suoi detrattori. Nel Regno Unito, per esempio, i dipendenti pubblici costano molto di più (3.626 euro per abitante contro i nostri 2.753, con una differenza del 31,7%), ma il problema è che gli inglesi se lo possono permettere: il loro Pil è cresciuto di quasi il 13% negli ultimi sette anni e nello stesso periodo il numero di occupati nel settore pubblico è stato tagliato di quasi un sesto con una massiccia opera di privatizzazione, con il risultato che la massa salariale del pubblico impiego continua ad assorbire meno di un decimo della ricchezza britannica.
Dalle parti di Londra la riforma delle partecipate è stata fatta sul serio e ha ridotto di tre volte in sette anni i confini e il numero di dipendenti delle public corporations. Non così in Francia, dove i governi socialisti hanno omaggiato la centralità storica dell’administration per ragioni fra il culturale e l’elettorale, hanno gonfiato dell’11% la dimensione complessiva degli stipendi, ma hanno finanziato il tutto con il deficit che continua a caratterizzare i bilanci pubblici transalpini: trasferito nell’Italia del super-debito, il rosso francese produrrebbe subito una procedura d’infrazione, ma soprattutto tornerebbe a mettere a rischio la tenuta dei conti e la sicurezza di stipendi e pensioni.
I privilegiati resistono
Di spazio per scialare non ce n’è, ma c’è parecchio spazio per governare meglio. Anche nella Pa italiana la crisi è stata per molti, ma non per tutti. Regioni ed enti locali hanno pagato il prezzo più salato in termini di tagli agli organici, ma la dinamica è stata contraria nei territori autonomi di Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, che già prima della cura si trovavano in vetta alle classifiche per numero di dipendenti. Fra il 2007 e il 2014 gli stipendi medi negli enti di ricerca sono saliti dell’1% nominale, cioè in pratica hanno perso il 10% reale, mentre a Palazzo Chigi sono cresciuti del 31%: la scarsità di risorse dovrebbe spingere a una selezione rigorosa delle priorità, ma nella storia recente della Pa italiana non sembra successo nulla di simile.

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