martedì 23 febbraio 2016

I droni Usa partono da Sigonella, l'Italia è già in guerra.


I droni Usa partono da Sigonella, l'Italia è già in guerra

Sta per cominciare la quarta guerra di Libia in poco più di un secolo. L'ammissione, inmodo involontariamente comico, arriva dallo stesso ministro degli esteri, Paolo Gentiloni.

Redazione Contropiano

 Il quale, rispondendo alle domande dei giornalisti a Istanbul (all'estero i gioralisti fanno le domande, non reggono solo il microfono, come avviene qui), in merito alle rivelazioni del Wall Street Journal sull'uso della base di Sigonella da parte degli Usa per i bombardamenti già in corso, ha affermato che questo comunque «non è preludio a un intervento militare».
Anche sul piano istituzionale, bisogna dire, i buchi sono tanti: «l'utilizzo della base di Sigonella non richiede una specifica comunicazione al parlamento, ma sarà il ministero della difesa a valutare». Il Parlamento, in fondo, non conta più niente, vero? E anche la Costituzione (non solo l'art. 11), che noia!
Giacché c'era, Gentiloni ha voluto dar prova di avere sotto controllo ogni dettaglio: "Oltretutto non credo che questa autorizzazione sia specificamente finalizzata alla Libia, ma ad operazioni antiterrorismo in generale". Della serie: non mi/ci dicono niente, dunque – a là Razzi - “non credo...”

A cascata, è arrivata anche la conferma da parte di Matteo Renzi, altrettanto ritrosa e ridicola: "Come già detto dal ministro della Difesa, le autorizzazioni" (ai droni americani da Sigonella verso la Libia, ndr) "sono caso per caso: se ci sono iniziative contro terroristi e potenziali attentatori dell'Isis c'è uno stretto rapporto tra noi, soprattutto gli americani, e gli altri alleati. Siamo in piena sintonia con i nostri alleati internazionali".
In pratica, mettendo insieme le due frasi, starebbe accadendo questo: ogni volta che un drone Usa si alza da Sigonella chiede “permesso” a palazzo Chigi che dmanda “state andando a fare un giro di perlustrazione oppure a bombardare?”. Se gli Usa rispondono “bombardiamo” allora da palazzo Cigi parte una seconda domanda: “chi bombardate?”. Se si tratta di “terroristi dell'Isis nascosti in via Tal dei tali” - su autocertificazione statunitense - allora arriva l'ok, altrimenti (in quali casi? sarebbe bello sapere), “no, per favore, state fermi”. E gli americani ci obbediscono... In ogni caso, questo «non è preludio a un intervento militare».
Lasciamo perdere le comiche del governo italiano, peraltro smentite involontariamente dallo stesso Renzi: «La priorità è la risposta diplomatica ma se abbiamo prove evidenti che si stanno preparando attentati l'Italia fa la sua parte») e guardiamo in faccia la realtà, peraltro anticipata ormai da mesi anche sui media di regime di questo paese (e ancor più, naturalmente, sulla stampa internazionale): la guerra sta per iniziare, ma i problemi e i dubbi sono più delle certezze. Intanto perché non esiste uno stato chiamato Libia, ma un paio di governi (uno a Tripoli, l'altro a Tobruk) che non riescono a mettersi d'accordo per formarne uno unitario. Poi ci sono l'Isis, Al Qaeda e una ventina – almeno – di milizie tribali che cambiano alleanze con una certa frequenza. Dunque, manca un governo legittimo e riconosciuto da una certa quota di paesi (nonché dall'Onu) che possa “chiedere aiuto militare” all'alleanza multinazionale che scalpita per aprire il fuoco. Scalpita talmente tanto che il fuoco è già stato aperto, con i droni, dagli Stati Uniti.
Ma le cose sarebbero ancora più avanti. Usa, Francia e Gran Bretagna avrebbero già inviato forze speciali per addestrare e dirigere le truppe locali, in particolare le forze fedeli a Tobruk e al generale Khalifa Haftar e forse anche le milizie di Misurata. Del resto, i paesi imperialisti dispongono del controllo dei cieli, e quindi possono meglio indirizzare i movimenti delle truppe locali in un territorio controllato a macchia di leopardo da potenziali avversari che possono diventare alleati o viceversa. Ma il New York Times, per esempio, cita fonti secondo cui sono previsti anche attacchi aerei contro Sirte e altre roccaforti dell'Isis, accompagnati da incursioni mirate delle “forze speciali”. Insomma, un quadro di spiegamento avanzato delle forze militari sul campo, che da un momento all'altro dovrebbe diventare ufficialmente “intervento”.
Si comincia a percepire, anche dalle sconclusionate dichiarazioni dei vari ministri italici, che il governo Renzi nutra ancora molte perplessità. Non sull'intervento in quanto tale, ma sulle modalità e sul ruolo che verrebbe lasciato all'Italia. Nessuno può credere sul serio che i contratti petroliferi – che da decenni, sul teatro libico, sono in modo consistente in mano all'Eni – non abbiano un peso determinante. Né si può credere che, a seconda del ruolo militare svolto nella guerra, l'Italia rischi seriamente di essere colpita, stavolta, dagli attentati jihadisti.
Resta la domanda cui nessuno risponderà, per ora: come mai tanta convinzione nell'attaccare l'Isis in Libia mentre nel Siraq – dopo anni di persunti, e inefficacissimi, bombardamenti Usa – gli è stata lasciata mano libera fin quando non sono intervenuto russi, iraniani ed Hezbollah libanesi?

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