martedì 22 dicembre 2015

La fine delle "famiglie politiche" europee.


Ormai è rimasta soltanto la Germania. Dopo il risultato spagnolo, il quadro appare ormai quasi completo: le “grandi famiglie politiche” del dopoguerra si vanno sciogliendo. Quelle che che hanno dato vita all'Unione Europea e ora ne vengono travolte.
 
contropiano.org Dante Barontini
La fine delle "famiglie politiche" europeeLiberali, popolari, socialisti o socialdemocratici, nelle varie versioni nazionali, non costituiscono più una rappresentanza politica credibile agli occhi delle rispettive popolazioni. Quanti avevano gioito della scomparsa dei “comunisti” dopo il 1989 – sul piano elettorale, quindi come radicamento sociale diffuso – si vanno scoprendo ora esattamente nella stessa condizione. Vengono accompagnati a passi rapidi fuori dalla Storia.
Inutile ormai star qui a disquisire se quei partiti “comunisti” fossero o no depositari autentici, e in che misura, dei valori originari del movimento operaio. Così come è inutile chiedersi oggi se i popolari di Rajoy-Sarkozy-Merkel o i socialisti di Sanchez-Hollande-Schultz abbiano qualche parentela ideale minima con i loro padri spirituali di 30 0 70 anni fa.
Tutti i paesi dell'Unione Europea sono infatti percorsi dalla stessa febbrile crisi politica, che segue – com'era ovvio che fosse – la crisi economica e finanziaria globale, lo svuotamento di potere dei parlamenti e dei governi nazionali, la dimostrata incoerenza tra meccanismi di identificazione ideologica o valoriale e concrete pratiche di governo.

Una crisi politica che tende ad azzerare ovunque i “vecchi partiti” perché questi sono ormai sentiti e visti come bande di potere pronte a tutto pur di restare in sella, privati come sono di qualsiasi influenza sulle scelte macroeconomiche e dunque sulle politiche sociali.
Casta”, si è detto in Italia. E in effetti la classe politica selezionata dalla democrazia parlamentare è sempre stata qualcosa di molto vicino a questa definizione. Il dato nuovo è che “la politica” non è più un luogo di compensazione tra interessi sociali (quindi economici) diversi o addirittura contrapposti. Quindi non vengono più selezionati “statisti” (figure in grado di coniugare la complessità dei diversi interessi in una visione di lungo periodo e in politiche conseguenti), ma semplici affabulatori. Quindi la “necessità della politica”, e dei relativi “professionisti”, viene meno. Basta un impresario dello spettacolo o un attorucolo da telequiz per coprire il ruolo...
Con l'Unione Europea e la centralizzazione sovranazionale delle decisioni politiche – ridotte a semplice esecuzione di “pratiche economiche” considerate pregiudizialmente “ottimali” - nessun governo nazionale ha più alcuna possibilità di esprimere la combinazione di interessi sociali che lo ha fatto eleggere, qualunque essa sia. C'è un interesse superiore – quello del capitale multinazionale, in primo luogo finanziario – che sovradetermina, distrugge, subordina gli spazi di autonomia decisionale di chiunque.
L'esperienza greca del 2015, con la drammatica svolta del 13 luglio e la nascita di una Syriza 2.0 completamente addomesticata, sta lì a confermare la battuta tagliente di Wolfgang Schaeuble durante una riunione dell'Eurogruppo (istituzione non prevista da nessun trattato, ma dotata di poteri quasi assoluti): “siamo un'Unione a 28 paesi, ci sono elezioni quasi ogni mese, non possiamo assolutamente permettere che un’elezione cambi le cose.
Quindi, di fatto e nella percezione comune delle popolazioni, non ha più senso star lì a distinguere tra un partito o l'altro, tra una “grande famiglia politica” e l'altra, per lo meno tra quelli che iscrivono il proprio orizzonte all'interno dell'Unione Europea (che è un'istituzione quasi-statuale, non “l'Europa”). Il discrimine politico vero è diventato infatti un altro: vuoi continuare ad andare avanti dentro questa gabbia costruita per impoverirti oppure vuoi romperla?
La crescita inarrestabile dei “movimenti anticasta”, dei "populismi" dall'ideologia confusa, con caratteristiche sociali e ideologiche anche molti diverse ma complessivamente dilettantesche, ha questa ragione profonda e incomprimibile. Appena sussurrata in alcuni casi, apertamente esplicitata in altri. Una crescita che in alcuni casi dà spazio a vecchi marpioni che sanno fiutare il vento (come i lepenisti in Francia o l'impresentabile Salvini in Italia), ma che quasi ovunque ha fatto emergere risposte realmente “nuove” e assolutamente incasinate.
Un solo paese sembra ancora resistere a questo cambio di pelle della tradizione politica. Non a caso è la Germania, il paese-guida che più ha guadagnato dall'unificazione del mercato e dalle regole imposte con mortifera sapienza (e accettate da altri paesi con imbarazzante dilettantismo). Ma, anche lì, ad un prezzo che prima o poi dovrà essere pagato: la grosse koalition, ossia la sostanziale unificazione operativa delle due principali famiglie tradizionali (democristiani e scialdemocratici), che per un verso rappresenta la fusione tra gli interessi del capitale multinazionale e dell'aristocrazia operaia ad alta qualifica e salario, per un altro restringe il campo degli interessi rappresentati a un “blocco sociale” che sta diventando rapidamente minoritario anche a Berlino (la generazione nata sotto le “riforme Hartz” è fuori da questo patto sociale, e si va fisiologicamente ingrossando con passare degli anni).
Cosa significa tutto questo per la lotta politica nel Vecchio Continente? In primo luogo che non esiste più una contrapposizione credibile tra “progressisti” e “conservatori”, se non nel campo – residuale e socialmente poco rilevante – di alcuni diritti civili. La faglia che si va allargando è tra i soggetti sociali che si riconoscono – perché “ci guadagnano” - nel percorso reazionario dell'Unione Europea e quelli che guardano alla sua rottura come precondizione indispensabile per ritrovare una possibilità di scegliere finalità e obiettivi, anche diversi.
Anche in questo caso, ovviamente, ci sono suggestioni fortemente reazionarie (revansciste, xenofobe, fasciste, ecc) come prospettive decisamente liberatorie, solidaristiche e “rivoluzionarie” su basi di classe. Ma non ci sono alternative all'unirsi per lottare, al mettere insieme il “nostro blocco sociale” in un percorso conflittuale di lungo periodo.

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