mercoledì 25 novembre 2015

Critica della ragione tecnologica.

Dalla parte degli umani.


 
 
micromega di Pierfranco Pellizzetti
«Molte le cose mirabili,
ma nessuna più mirabile dell’uomo.
Il quale solca il mare in tempesta
e aggioga i buoi dalle corna ricurve»
Sofocle – Antigone

«Le tecnologie, a quanto pare, tendono
a promettere più di quanto siano in grado
di fare, almeno rispetto alle previsioni
»
Evgeny Morozov
 

Nel 2004 Frank Levy e Richard Murnane, autorevoli ricercatori del Massachussetts Institute of Technology, pubblicarono il loro saggio The New Division of Labor sulle prevedibili ripartizioni a medio periodo dei compiti/ruoli tra il lavoro umano e quello delle apparecchiature digitali; tra persone e computer. Opportuno aggiornamento - al tempo di droni e altre supplenze meccaniche espulsive del biologico dilaganti - di uno dei classici temi affrontati dalla sociologia agli esordi (de la division du travail social); alla luce dell’entrata in campo di un soggetto inesistente e – dunque - imprevisto al tempo in cui Émile Durkheim scriveva il suo celeberrimo saggio: l’evoluzione e l’estensione delle capacità artificiali nel sostituire le funzioni umane, dalla forza fisica a quella mentale. La “seconda età delle macchine”: la presa d’atto che computer e relativi programmi digitali realizzano nell’area del pensante quanto la macchina a vapore e le successive apparecchiature dell’età industriale hanno fatto in quella del muscolare. Gli apologeti aggiungono: con funzioni liberatorie.

Un assunto largamente influenzato da quell’inquietante efficientismo di stampo aziendalistico imposto come best way dalla controrivoluzione anglosassone degli ultimi quattro decenni: «la gente dovrebbe concentrarsi sulle mansioni e sui lavori in cui gode di un vantaggio competitivo rispetto alle macchine, lasciando ai computer le attività per cui sono più adatti».

Sulla base di questo criterio, i due autori arrivavano a individuare alcune aree e attività – a loro dire - indiscutibilmente e permanentemente inibite all’appropriazione della mente artificiale; una delle quali veniva indicata nella guida di un veicolo di trasporto in mezzo al traffico. Affermazione che traeva conferma dalla comica vicenda del Grand Challenge di due anni prima: la sfida lanciata da DARPA (Defence Avanced Research Projects Agency) - l’agenzia statunitense creata nel 1958 allo scopo di promuovere progetti tecnologici – per costruire un veicolo privo di autista, in grado di attraversare 200 chilometri nel deserto del Mojave. La gara si tenne il 13 marzo 2004 con la partecipazione di quindici concorrenti e risultati clamorosamente disastrosi; appunto, da comica finale (slapstick): la migliore prestazione fu quella di una vettura che riuscì a percorrere appena 7,4 miglia, per poi uscire di strada a un tornante, ribaltare e schiantarsi in una duna di sabbia.

Bene: dieci dopo arrivano i loro colleghi bostoniani Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee a raccontarci le meraviglie del “progetto Chauffeur” di Google; sperimentate personalmente, trionfalmente: il giretto sulla statale californiana 101 su una automobile senza pilota perfettamente affidabile.

Difatti è dall’ottobre 2010 che Google ha postato nei blog la notizia che le sue auto totalmente autonome (prive di guida umana) stavano funzionando già da un po’ di tempo e senza problemi nel groviglio delle strade e superstrade degli Stati Uniti. A plateale smentita dell’idea - sino ad allora assunto di fede - che mai e poi mai un programma digitale avrebbe rimpiazzato il conduttore in carne e ossa nel driving di una vettura. Almeno nel futuro prevedibile.

Se ha un senso l’espressione “lavoro morto che ghermisce quello vivo”, le scampagnate californiane di Brynjolfsson e McAfee ne sono la più inquietante rappresentazione. Tale anche in quanto accompagnata da un’insensata esultanza per operazioni che promettono ulteriori mattanze a livello di occupabilità.

Ma il vigente indirizzo delle applicazioni tecnologiche verso obiettivi “labor saving” - il vero significato dell’evoluzione in corso, a prescindere dal fantascientifico folklore in cui viene ammantata - è una direzione “neutra” o risponde a ben precise volontà, che la piegano a ben identificabili obiettivi? Lo si chiede facendo spallucce anche quando queste legittime domande sono oggetto di rimozione preventiva, magari mediante bollatura con il marchio infamante di “posizioni reazionarie”. Come accade fin dal tempo in cui il Movimento Luddista venne degradato a “ottusa chiusura nei confronti del progresso”, quando – in effetti – era la disperata resistenza di ceti artigiani alla dequalificazione delle professioni a mezzo macchinismo.

Anche stavolta un po’ di sana ermeneutica del sospetto può venire utile.

Infatti, tralasciando il tema provocatorio se la scienza sia o meno un campo attraversato da poste in gioco e rapporti di forza, se esista un’oggettività “oggettiva” (scientista) o se questa sia un prodotto sociale alla Thomas Kuhn o alla Pierre Bourdieu («le regole epistemologiche non sono altro che le regole e le regolarità inscritte nelle strutture e/o negli habitus»), resta sufficientemente accertato che la traduzione delle conoscenze scientifiche in procedimenti diretti a scopi pratici (produttivi) – leggasi “tecnologia” – ha largamente a che fare con i criteri storicamente dominanti. In questo senso risulta certamente “prodotto” sociale.

Con altre parole, un’evidente questione di Potere, che oggi pratica il trionfalismo più irresponsabile mentre è in corso l’espulsione di larga parte della componente umana dal tipo di organizzazione che si sta realizzando: l’azzeramento dei contributi propositivi e critici delle donne e degli uomini “concreti” alla fabbricazione delle cose, alla fornitura dei servizi e alla determinazione di un’apprezzabilità condivisa. In senso lato, alla democrazia dei cittadini.

Già tre lustri or sono uno dei nostri più grandi esploratori delle trasformazioni novecentesche, un giornalista di Cuneo allergico alle fanfaluche di moda come Giorgio Bocca, aveva messo in luce gli aspetti mistificatori in questa confusa religione laica del superamento dell’individuo nella Rete, con le sue oscure metafore dei flussi e degli sciami: «le classi al potere hanno sempre inventato ideologie per giustificare i loro comodi e le loro ottusità. Non sapendo governare il mondo, hanno inventato prima i miti e poi le religioni. E adesso, avendo ucciso Dio con le loro scienze, cercano di ricostruirlo con lo sciame, con il flusso. Le ideologie del passato avevano almeno il merito o la buona volontà di porre l’uomo al loro centro. Le nuove lo ignorano. Gli assegnano al massimo una funzione da formicaio, da alveare: lo lasciano volare nello sciame». La digitalizzazione dell’umano.

Gli spartiacque industriali La questione dei criteri di scelta in ambito tecnologico divenne l’oggetto di un classico saggio apparso trent’anni fa: “The Second Industrial Divide”, a firma dell’economista MIT Michael J. Piore e del suo collega politologo Charles F. Sabel. A loro dire, tale scelta non scaturisce da una logica autonoma di necessità tecniche o scientifiche: l’emergere e il declinare di tecnologie dipende in prevalenza dalla struttura dei mercati dei prodotti tecnologici; e la struttura di questi mercati discende – a sua volta – da circostanze politiche fondamentali, quali i diritti di proprietà e la distribuzione della ricchezza. Insomma, «le macchine rappresentano sia lo specchio che il motore dello sviluppo».

Sabel e Piore chiamano “spartiacque industriali” (industrial divide) i momenti particolari in cui il cammino lineare dello sviluppo tecnologico viene messo in questione. Momenti in cui – giunti a un bivio - si decide la via da imboccare, in quanto più confacente agli interessi dominanti. Ad esempio lo spostamento di centralità nel sistema-mondo dell’economia occidentale verso l’area anglo-sassone coincise con l’affermazione del modo di produrre di massa, a scapito di quello artigianale continentale. Fermo restando che non esisteva nessuna ragione “oggettiva” a priori che determinasse la prevalenza della standardizzazione, propria del paradigma taylorista-fordista, sulla flessibilità (prodotto personalizzato) della fabbrica artigiana meccanizzata. Quello che risultava determinante era la composizione della forza lavoro disponibile nelle aree ormai egemoni nella seconda metà dell’Ottocento, caratterizzata da basso livello di specializzazione: nell’Inghilterra dei “borghi putridi”, in quanto prevalentemente formata da masse rurali inurbate; negli Stati Uniti del paternalismo aziendale, stanti le fiumane di immigrati provenienti dalle zone più arretrate del Vecchio Continente (Italia, Irlanda, Lituania e così via).

Di conseguenza la scelta del paradigma tecno-economico dominante risponde a logiche che prescindono dall’efficienza. Come gli storici dell’economia ci hanno ampiamente illustrato, quando all’inizio del XX secolo si risolse l’alternativa in ambito trasportistico tra motore a benzina o a vapore, nell’avionica tra velivoli più leggeri dell’aria (dirigibile) o più pesanti (aeroplano). Scelte in cui prevalsero le soluzioni confacenti agli interessi meglio posizionati lobbisticamente.

«La tecnologia non è quindi una causa prima ma il prodotto di un conflitto sociale per cui all’interno di possibilità alternative prevalgono le scelte dei detentori del potere, così da conferire ad essa una precisa impronta di classe che ne determina poi ogni conseguenza» (Alfred D. Chandler jr.).

Ciò nonostante, in passato le zigzaganti vicende dello sviluppo dipendenti dalle tecniche hanno sempre mantenuto un impatto latamente inclusivo nei confronti del corpo sociale; sia sotto il profilo occupazionale, sia sotto il profilo distributivo (incremento del potere di acquisto). Il dato in controtendenza, che emerge dalle recenti evoluzioni, è che ormai lo sviluppo prescinde dalle persone reali. In misura sempre crescente.

Un fenomeno declinato in due ambiti:
  1. l’organizzazione del lavoro, ossia l’aspetto maggiormente messo a fuoco nell’attuale polemica rispetto a un modello che rivela in maniera sempre più evidente la sua finalizzazione a produrre disuguaglianze economiche nella ripartizione delle risorse e blocchi castali nella composizione sociale;

  2. la subalternità dei programmi di innovazione tecnologica a criteri meramente mercantili; finalizzati a indurre, attraverso la comunicazione manipolativa, propensioni d’acquisto in una popolazione sempre di più colonizzata dal consumismo e in preda alle relative pulsioni attivate (drogate) dal marketing.
Sotto entrambi gli aspetti, un inquietante segnale di crisi; ma anche le fattispecie eminentemente truffaldine con le quali l’attuale corso plutocratico ridisegna a proprio vantaggio i rapporti tra le classi (organizzazione d’impresa labor saving) e il capitalismo accumula ricchezza senza riprodurla, manipolando i bisogni (innovazione sottomessa alle logiche della mercificazione).

Segnali dell’autunno di un ciclo economico, indotti dall’inarrestabile scivolamento del profitto industriale nella rendita finanziaria. Nel fermo immagine di una stagione intrisa di umori restaurativi, che occulta la propria vera natura dipingendosi come il migliore dei mondi possibili; e – conseguentemente – bloccando le lancette del tempo in un eterno presente immobile, che non deve mai essere minacciato da effettivi processi di cambiamento. Quel cambiamento, insito nella tecnologia in quanto innovazione declinata a invenzione, che viene asservito quale strumento giustificativo dell’ordine vigente. Una torsione rispetto alle sua fondamentale destinazione d’uso, che nel primo caso (organizzativo) si rivela una trappola e nel secondo (consumistico) una vera e propria truffa.

Riallacciandoci alle considerazioni iniziali, mentre il progetto di utilizzare la tecnologia per sottomettere l’ordine democratico procedeva a spron battuto, venivamo tranquillizzati con la confortante rassicurazione che gli algoritmi e le regole espresse nei codici informatici contemplano soltanto le variabili più comuni. Tanto da escludere il riconoscimento di modelli, o pattern, complessi per operazioni che non possono essere computerizzate; rimanendo – così - prerogativa degli umani (in quanto lavoratori).

Le più recenti vicende stanno dimostrando esattamente il contrario. Resta da capire perché e per come le applicazioni tecnologiche (in particolare i software dedicati) sono state indirizzate al raggiungimento di tale scopo. All’esclusione del canonico 99 per cento dell’umanità.

La sindrome di Johannesburg

«Tre ore di lavoro al giorno sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in noi». Queste le esatte parole di John Maynard Keynes, pronunciate nella celebre conferenza Economic Possibilities for Our Grandchildren del 1931; ispirate a una tesi che partiva dalla presunzione di uno sviluppo messo al servizio del benessere generale. E che – in effetti - ispirò le politiche pubbliche per larga parte dell’età welfariana. Almeno tendenzialmente.

Poi avvenne una rottura verticale, tradotta nella denuncia del patto (keynesiano-fordista: l’accettazione dell’ordine capitalistico a fronte della piena occupazione tendenziale) che tale ordine aveva retto. A seguito del diffondersi di quella che taluno definì “sindrome di Johannesburg”: come nel Sudafrica dell’apartheid, «i ricchi hanno sempre più paura dei poveri e si difendono da essi attaccandoli, riducendo gli aiuti umanitari, peggiorando la qualità dell’istruzione, ostacolando i flussi migratori» (Domenico De Masi). L’esclusione al servizio della disuguaglianza, ottenuta attraverso pratiche di esproprio dirette o sottotraccia.

Un tema che è diventato centrale nel dibattito di politica economica del 2014, a seguito del successo mondiale di Thomas Piketty con il suo best-seller “Il Capitale nel XXI secolo” («i processi di trasferimento di patrimonio dal settore pubblico a quello privato non si sono solo verificati nei paesi ricchi, a partire dagli anni settanta… Su scala mondiale, la più massiccia operazione di privatizzazione di tutta la storia del capitale»); già anticipato – tra gli altri - dal nostro Luciano Gallino ne “La lotta di classe dopo la lotta di classe” («questa lotta viene condotta dalle classi dominanti dei diversi paesi, le quali costituiscono ormai per vari aspetti un’unica classe globale»). Ora giunge lo storico Ignazio Masulli a fornirci dati altamente inquietanti sulle fasi iniziali dell’operazione che avrebbe spaccato il mondo in due, tra i pochi abbienti sempre più ricchi e le moltitudini in crescente impoverimento, resa possibile dall’innovazione; all’inizio più organizzativa che tecnologica: il decentramento produttivo transnazionale, avviato dalla pionieristica scelta della multinazionale USA Fairchild di trasferire il montaggio delle componenti microelettroniche a Hong Kong, nel lontano 1962.

Ecco alcuni dati dal fronte dell’Unione europea estrapolati da Masulli: nel 1980 la Francia investiva in attività produttive all’estero il 3,6 per cento del PIL, nel 2012 era il 57 per cento; la Germania è passata nello stesso arco temporale dal 4,7 al 45,6 per cento e il Regno Unito dal 14,8 al 62,5. Analoga tendenza si riscontra anche nel caso italiano: dall’1,6 al 28 per cento. La dinamica rivela appieno il suo aspetto inquietante esaminata sul fronte dei posti di lavoro perduti o non creati: in Francia 5,9 milioni, 7,3 in Germania nonché almeno 2,6 milioni in Italia.

La delocalizzazione selvaggia che ha generato il cosiddetto fenomeno delle imprese foot-loose (senza piedi), reso possibile dalla rivoluzione trasportistica del just-in-time (grazie – tra l’altro - ai flussi di container dal Far East e alla cantieristica delle super-navi post-post-Panamax) coniugata con il time zero della comunicazione informatizzata. Quanto il tecno-entusiasta Kevin Kelly – celebre firma di Wired, la Bibbia dei thechies planetari – ci descrive come la “meraviglia delle meraviglie” di nazioni con un costo della manodopera da lavoro schiavistico ormai diventate nostre vicine di casa. Visto che ci separa da loro soltanto un ottavo di secondo: «il tempo massimo impiegato da un segnale per viaggiare da un capo all’altro del mondo».

Insomma, la meraviglia per nulla meravigliosa di un modo di produrre che azzera la forza del lavoro organizzato nel contrapporsi al comando capitalistico a tutela dei propri diritti. Se in età industriale le imprese erano localizzate e i lavoratori potevano bloccare la riproduzione del profitto attraverso la spada di Damocle delle proprie lotte, nella stagione post-industriale (che continua a essere industriale, solo che emigra nelle malfamate Export Processing Zone a Oriente, dove si ripristinano condizioni di sfruttamento di stampo schiavistico) le imprese si insediano nei territori o vi prendono il largo in base a enter/exit strategy che inducono le controparti a sempre più miti consigli. Tanto da determinare un radicale cambio di mentalità nelle moltitudini precarizzate. Lo rilevava recentemente il sociologo Marc Augé: «i proletari non sognano più di abbattere il sistema: temono che crolli».

Stato d’animo di sottomissione a rapporti di forza largamente dipendenti dalle strumentazioni tecnologiche e organizzative, comunicative e trasportistiche, utilizzate per spezzare la resistenza del lavoro dipendente e delle sue rappresentanze. Il tutto tradotto in una serie di narrazioni accreditanti il nuovo corso che prosciuga di senso, significato e relativa solidarietà indotta (le preziose legature che fanno società) la componente umana intesa come classe produttrice; frammentandola fino all’atomizzazione: “flessibilizzarsi”, “diventare imprenditori di se stessi” e altre mistificazioni. Gabbie per tenere a bada moltitudini che tornano a essere rappresentate come “classi pericolose”; nella ristrutturazione della società secondo il metro plutocratico, che perimetra, recinta e castalizza.

Leonardi del XXI secolo o markettari?

Continuando a passare in esame un sapere scientifico applicato, sottoposto a piegatura alle esigenze di un Potere che si ammanta nella comunicazione mendace e pratica spudoratamente l’illusionismo e il camaleontismo per non offrire bersagli alla critica, vale la pena di prendere in considerazione quanto scriveva recentemente l’economista premio Nobel Paul Krugman: nonostante la grancassa egemonica del pensiero mainstream tecno-centrico, «un numero in aumento di economisti si chiede se la rivoluzione tecnologica non sia stata gonfiata in maniera fuorviante». Domanda particolarmente sovversiva, al limite del destabilizzante, considerato che viviamo in un’epoca che ama rappresentarsi come laboratorio permanente di innovazioni stupefacenti; dove ogni ambito viene descritto in cambiamento, con ritmi sconosciuti rispetto alle varie svolte storiche del passato, comunque e sempre innescate/accelerate dal succedersi delle invenzioni.

Così è stato dal momento in cui l’Occidente interiorizzò il principio (prima nelle pratiche, poi anche nelle teorizzazioni) che modificava la percezione circolare del tempo virandolo a freccia ascensionale orientata al cambiamento. Così vennero inventate le categorie di futuro (come conquista) e di progresso (come costruzione). E gli apporti delle tecniche esercitarono un impatto potente nel ridisegno della società.

Già alle soglie dell’anno Mille è il mutamento tecnologico a creare le due classi decisive nella storia dell’Europa: il cavaliere feudale e l’artigiano cittadino. Il primo dipendente dall’invenzione della staffa, giunta dall’Asia centrale attorno al VII secolo, che permise il combattimento a cavallo; l’altro legato alla riprogettazione della ruota ad acqua e del mulino a vento, che consentì di produrre forza motrice da fonti inanimate – i flussi idrici ed eolici – urbanizzando le pratiche manifatturiere e - così – favorendo l’affermazione di quel ceto che diede vita alle città europee.

Quel processo per accumulazione che raggiungerà l’acme nella seconda metà del XVIII secolo; all’avvento della rivoluzione industriale, cui si accompagnò l’effettiva “invenzione” della tecnologia (la combinazione di téchne, abilità artigianale e logos). La prima scuola tecnica fu la francese École nationale des ponts et chaussées, fondata nel 1747.

«Possiamo considerare l’Encyclopédie di Denis Diderot e Jean d’Alembert il vero, grande, manifesto di questo passaggio dall’abilità alla tecnica. La più importante e significativa manifestazione del contesto intellettuale in cui andava maturando tale fervore realizzativo». Un fervore che accompagna la riorganizzazione della vita collettiva dall’introduzione del telaio meccanico e poi della macchina a vapore fino al personal computer; la cui realizzazione risale al 1965 e che – tra l’altro - inizialmente parlava italiano (il “Progetto Olivetti programma 101” che mise a punto la cosiddetta Perottina, dal nome del capo progetto ingegner Pier Giorgio Perotto).

L’entrata in gioco delle grandi locomotive economiche, quali il treno e l’automobile.

Ma ora? La sensazione crescente – esplicitata dall’imprevista presa di posizione di Krugman - è che, al di là dei trionfalismi di maniera, l’antico fervore sia venuto trasformandosi nel suo contrario. Qualcosa in cui le logiche mimeticamente strumentali della finanziarizzazione plutocratica abbiano marginalizzato ogni altro aspetto. In cui l’apparenza prevale sulla sostanza e la spinta di trasformazione insita nella leva tecnologica è stata riprogrammata in contro-spinta di restaurazione: la svolta, avvenuta nell’elettronica a partire dagli anni Sessanta, che si è tradotta nella miniaturizzazione, nel passaggio al digitale e nella riduzione del prezzo delle componenti risulta decisiva per riconfigurare la divisione del lavoro. La rivoluzione industriale ultima e decisiva, che svaluta il fattore umano fino al punto da prescinderne. Tanto che la retorica entusiastica sulle stagioni tecnologiche prossime venture diventa una forma di intrattenimento per dirottare l’attenzione dagli effetti realmente presenti nell’oggi; e dalle loro conseguenze in atto di marginalizzazione espulsiva. Distrazioni individuali che tendono a diventare fumisterie sociali. Oltre che prigioni mentali in cui incarcerare le classi “operose”, ormai considerate “pericolose”, anche marchingegni per rianimare mercati ormai saturi attraverso manipolazioni della propensione all’acquisto di masse turlupinate con le ipotetiche meraviglie dell’up-to-date.

Difatti cresce la sensazione che buona parte delle novità hi-tech siano più divertenti che indispensabili. Merchandising. Al di là degli entusiasmi indotti da Twitter e i suoi 140 caratteri. Et similia.

Per dirla con una battuta, «il touch screen è certo una trovata carina, ma francamente non potrà mai avere l’impatto sociale del motore a scoppio!».

In altre parole, già da un po’ di tempo le innovazioni tecnologiche non portano benefici reali: «difficile che un selfie possa far crescere il frutto del nostro lavoro», commenta Federico Rampini. E quando propagandisti del presente elevato a “migliore dei mondi possibili” – tipo l’ex consigliere economico di Ronald Reagan Martin Feldstein – ci magnificano gli straordinari miglioramenti della nostra vita apportati dal video streaming nelle cure sanitarie, viene subito da chiedersi se il misuratore di tali miglioramenti sia la possibilità di scaricare immagini in diretta da Internet o non piuttosto l’impoverimento medio delle famiglie dal 2000 a oggi.

Insomma, le logiche egemoni che immobilizzano il tempo si direbbe abbiano (inconsciamente? Deliberatamente?) prosciugato la spinta propulsiva dell’innovazione, confinandola in un ruolo ancillare di propagandista dell’ordine vigente. Opera alimentata attraverso una cornucopia di trovate stupefacenti quanto sostanzialmente insignificanti. Valga a conferma di tale affermazione la classifica stilata da Time delle migliori invenzioni realizzate nel 2014: «si passa dallo skateboard volante (meglio noto come hoverboard e ispirato al film Ritorno al futuro) ai computer da polso, alle aste per scattare selfie ai tablet in grado di interpretare il linguaggio dei segni e tradurlo in parole». Insomma, un consistente mazzo di acchiappacitrulli. Il segno di un arresto nelle spinte propulsive reali mascherato dai gadgeting, restyling, packaging del marketing. Non a caso l’epoca ha incoronato un formidabile venditore con il pallino dell’estetica (e attitudini schiavistiche: chiedere conferma alla manodopera cinese segregata a produrre oggetti marchiati mela) – quale Steve Jobs – a “Leonardo da Vinci del XXI secolo”.

Un blocco della creatività (occultato nei giochi comunicativi promopubbblicitari al servizio del pensiero pensabile) che si ricicla in show. Senza – però – riuscire a modificare il dato oggettivo che gli effetti speciali servono solo a occultare trovate e cavatine. In assenza di tecnologie realmente inedite.

Giochi di potere e strumentalizzazioni commerciali. Ormai da decenni.

Arpanet, la mamma di Internet, risale al lontano 1969 e il computer fu incoronato “macchina dell’anno” dal solito Time nel quasi altrettanto lontano 1982. Per cui taluno già ipotizza un inevitabile destino di normalizzazione/banalizzazione di tutta questa presunta ondata di tecnologie rivoluzionarie. Ad esempio Geert Lovink, direttore dell’Institute of Network Cultures di Amsterdam, sostiene che il Web, rinato attorno al 2003 come Web 2.0 ed evoluto come medium di massa dopo il 2011, è candidato a trovare il suo posto nella vita quotidiana tra il frigorifero e il televisore, come assistente cuoco in cucina. Se ormai – prosegue Lovink - «non si svolgono più accesi dibattiti tra i membri della società civile coinvolti in forum sulla governance globale del tostapane, un giorno il “dibattito su internet” si chiuderà in modo analogo». Ma intanto che ne sarà stato della società delle persone?

Stagnazioni suicide

La storia dell’umanità è accompagnata da ricorrenti nefandezze all’insegna dell’avidità. Mai era giunta al delirio dell’espulsione premeditata della componente umana dai suoi orizzonti mentali e materiali. Operazione in cui “avidità” fa immediata rima con “stupidità”.

Forse in futuro - nello spezzarsi del paesaggio umano in due continenti non comunicanti - la psicologia sociale potrà chiarire l’aspetto apparentemente incomprensibile della risentita ostilità aggressiva della minoranza agiata nei confronti delle moltitudini impoverite e marginalizzate: la criminalizzazione del povero in quanto tale; nel ribaltamento dell’odio di classe che vede il privilegio all’attacco delle condizioni svantaggiate. Si potrebbe dire – psicanalizzando un tanto al chilo - il transfert nell’aggressività di inconfessabili paure della messa a repentaglio della possessività, la roba. A fronte della simmetrica – ma in questo caso effettiva - messa a repentaglio dei fondamenti di riconoscimento reciproco quale base costitutiva del pactum societatis; la condizioni sociali e culturali della civile convivenza.

Così come andrebbero adeguatamente scandagliati i processi mentali che legittimano la trasformazione dell’ingenerosità antisociale spinta all’ennesima potenza, dell’indifferenza autocompiaciuta e intollerante, in una sorta di assiomatica ideologicamente puntellata (NeoCon-NeoLib). Ma se questo appare già di per sé un chiaro (e al tempo stesso quasi indecifrabile) sintomo di impazzimento nello spirito del tempo, assolutamente decifrabile è l’effetto suicida che sta determinando la cosiddetta “stagione del bastardo avido” (copyright del regista Ridley Scott nel film Un’ottima annata). Qualcosa che assomiglia molto alla metafora dell’imbecillità, insita nell’operazione di “tagliare il ramo su cui si è seduti”.

Non è certo un caso se - mentre la grancassa rimbomba assordandoci con i suoi annunci di miracoli tecnologici - gli indicatori reali segnalano il costante rallentamento dell’economia, l’avanzare irresistibile delle disuguaglianze, il diffondersi dell’anomia sociale e l’imbarbarimento di sempre più vasti appezzamenti del paesaggio umano.

Cresce la consapevolezza che l’accumulazione della ricchezza deve fare ricorso in dosi crescenti a bolle speculative, che suppliscono con i propri effetti dopanti a un’inesistente crescita fisiologicamente effettiva.

A fronte del coretto stonato dei cantori della finanziarizzazione del mondo, si fanno sentire sempre più nitidamente voci che intonano tutt’altra canzone; le note amare di una promessa tradita: la fine della crescita ininterrotta.

Già nel novembre 2013, intervenendo alla XIV conferenza del Fondo monetario internazionale, l’ex segretario del Tesoro dell’amministrazione Clinton e ora docente di Harvard Lawrence Summers, aveva osato dire la verità: «dobbiamo abituarci a vivere nell’attuale depressione economica perché nulla cambierà. Neppure tra dieci o venti anni. Perché stiamo attraversando quella che è a tutti gli effetti una stagnazione secolare». Una campana a martello.

Sulla sua scia altri cominciano a dichiarare che “il re è nudo”, paventando il rischio di un mercato globale destinato a precipitare nel vortice di cicli economici che non riescono più a imboccare la via dello sviluppo.

Del resto la teoria di Summers sulla stagnazione secolare ha padri illustri. In particolare John Maynard Keynes e Gunnar Myrdal, secondo i quali il capitalismo riceveva la spinta decisiva da tre potenti motori, dalla rivoluzione industriale inglese in poi: la crescita economica, quella demografica e l’accelerazione del progresso tecnico. L’economia è stata desertificata dalla finanziarizzazione, la caduta della natalità è ormai un fenomeno non più limitato ai soli paesi ricchi di antica industrializzazione. Come si diceva, lo sviluppo tecnologico è preso in ostaggio da logiche puramente speculative che ne riducono largamente l’impatto. Eppure proprio quella tecnologica potrebbe essere la leva per uscire dall’impasse. Sempre che ci si liberasse dalle zavorre manipolative e si recuperasse l’uso critico della ragione. Senza farsi troppe illusioni, pena la caduta nel ridicolo: Karl Marx era convinto che le ferrovie avrebbero estirpato il sistema delle caste in India; quando ero ragazzo mi avevano spiegato che la televisione era il più grande strumento di liberazione di massa e poi ho trascorso gli anni della maturità nel regime politico sottomesso ai capricci e alle losche pulsioni del tycoon televisivo Silvio Berlusconi.

Dunque, l’uso critico della ragione tecnologica.

Altrimenti non usciremo dal lato oscuro di questa fase storica, in cui anche il sapere applicato diventa strumento di oppressione. Non ci libereremo da quella condizione che ha descritto brillantemente Evgeny Morozov, il massmediologo di Stanford nato in Bielorussia: «praticamente ogni nuova tecnologia è stata osannata per la sua capacità di alzare il livello del dibattito pubblico, accrescere la trasparenza della politica, limitare il nazionalismo e condurre tutti noi nel mitico villaggio globale. E praticamente in ogni caso quelle speranze sono state infrante dalla forza bruta della politica, della cultura e dell’economia».

Possiamo chiamare questo presidio critico, quale controllo esercitato sulle forze di cambiamento (o sulla deviazione repressiva del cambiamento), con l’antico e venerando nome di democrazia?

Bibliografia


M. Augé, Le nuove paure, Bollati Borighieri, Torino 2013

G. Bocca, “Dio è morto, e io sono un flusso”, l’Espresso 29 luglio 1999

P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, Milano 2003

E. Brynjolfsson e A. McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, Milano 2015

A. D. Chandler jr., La mano visibile, Angeli, Milano 1992

D. De Masi, Il futuro del lavoro, Rizzoli, Milano 1999la

L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma/Bari 2012

K. Kelly, Nuove regole per un nuovo mondo, Ponte alle grazie, Milano 1999

P. Krugman, “La prevalenza del Grande Boh”, la Repubblica 26 maggio 2015

F. Levy e R. J. Murname, The New Division of Labor, Princeton University Press, Princeton 2004

G. Lovink, Ossessioni collettive, Università Bocconi Editore, Milano 2012

I. Masulli, Chi ha cambiato il mondo? Laterza, Roma/Bari 2014

E. Morozov, L’ingenuità della rete, Codice, Torino 2011

P. Pellizzetti, Società o barbarie, il Saggiatore, Milano 2015

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M. J. Piore e C. F. Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, ISEDI, Torino 1987

F. Rampini, “La Silicon Valley non dà produttività”, la Repubblica 1 giugno 2015

(25 novembre 2015)

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