giovedì 27 novembre 2014

Messico: il massacro degli studenti e la geopolitica del silenzio.

Come in quel massacro del 1968 a Città del Messico, il governo sta reprimendo brutalmente le mobilitazioni di piazza. Manifestazioni di protesta contro un Paese in mano ai narcotrafficanti e alle lobby economiche e che con l'Occidente intrattiene fitte relazioni commerciali e politiche, tanto che da noi lo scandalo delle violenze non fa troppo rumore.



micromega di Francesca De Benedetti
Volevano bloccare una strada, volevano organizzare la commemorazione per il massacro degli studenti di Tlatelolco Plaza. Quel massacro datato 1968 e a lungo offuscato, quel giorno di ottobre in cui altri studenti messicani erano scesi in piazza, quell'anno in cui a governare era Diaz Ordaz del Partito Rivoluzionario Istituzionale (lo stesso del Presidente del Messico di oggi). Quel buco nero della storia in cui la conta dei morti è ancora indefinita ma il numero a seconda delle versioni oscilla tra trenta e centinaia.
"Se le Olimpiadi arrivano in Messico, in Messico vogliamo anche riforme politiche e sociali, e ci opponiamo alla repressione politica" – quella pretesa degli studenti di 70 università e scuole aveva scatenato la repressione del governo, sollecitando l'attenzione anche dei vicini di confine. I documenti emersi e desecretati tra il '98 e il 2003 dicono che la Cia teneva d'occhio quel movimento, che analizzò cosa succedeva prima e dopo il massacro.

Gli altri studenti messicani, quelli di qualche decennio dopo, quelli scomparsi questo 26 settembre, volevano bloccare una strada e commemorare appunto il massacro di Tlatelolco, avevano ancora in testa quel due ottobre. Come è andata a finire lo ha raccontato il 7 novembre un procuratore messicano: è la verità ufficiale, dice che tre narcos hanno ucciso i 43 studenti scomparsi a Iguala. Dice che la polizia gli ha consegnato i ragazzi, che l'ordine è arrivato dal sindaco per impedire proteste durante il comizio di sua moglie. E mentre una platea di giornalisti gli fa domande, quel procuratore, Jesus Murillo, dice di averne abbastanza: "ya me cansé". Una gaffe che diventerà poi lo slogan della protesta del Messico che da quel 7 novembre scorso incalza, mentre i genitori dei ragazzi non si arrendono alla verità ufficiale.

Ma dal 26 settembre della scomparsa a quel "ya me cansé", passando per continue e clamorose proteste di piazza, quel Messico arrabbiato che al narcopotere vuole dire basta lo si sente poco poco, poco lo si rappresenta: sui media se ne parla a sprazzi. Se la distanza si misura con la percezione collettiva, allora la "rivoluzione degli ombrelli" di Hong Kong è molto più vicina. Sono più vicine le ragazze rapite da Boko Haram, le "nostre ragazze" per le quali il mondo della politica e quello patinato del cinema si fecero fotografare: da Michelle Obama a Silvester Stallone, dall'europeo Jean-Claude Juncker alla messicana Salma Hayek. "Bring back our girls": così l'Occidente si giocava a colpi di hashtag la carta del soft power.

Ma l'album di famiglia di Stati Uniti e Europa racconta per il Messico una storia molto diversa: perché non è sempre vero che ciò che è vicino a noi (per geografia o per relazioni) fa più notizia, che suscita reazioni più forti. Anzi. Dopo il 7 novembre in cui viene annunciata la morte dei ragazzi, Barack Obama incontra il Presidente del Messico: lo vediamo immortalato in una foto mentre l'11 novembre al vertice Apec pianta con lui un simbolico "albero dello sviluppo". I due sono insieme, ancora, a Brisbane in Australia per il G20. Il Presidente americano ricorda una studentessa messicana che vive negli Usa mentre presenta i suoi provvedimenti per l'immigrazione – sono anche i giorni in cui in Messico la protesta infiamma – e il Presidente messicano lo ringrazia. Degli scandali del Messico dei narcos non c'è traccia neppure nel poco lontano febbraio, quando in una conferenza stampa congiunta col leader messicano, Obama precisa che "visto il nostro impegno condiviso per valori democratici e diritti umani, coglierò l'occasione per ricordare la situazione in Venezuela e Ucraina, l'inaccettabile violenza in questi due Paesi, cosa che gli Stati Uniti duramente condannano".

Prima ancora dello scandalo degli studenti scomparsi, c'è quello dei conflitti d'interesse (la vicenda della casa di famiglia costruita da aziende che hanno ricevuto appalti dallo Stato è tuttora piena di ombre), ci sono i sospetti di corruzione e i "leaks" in cui gli stessi americani sospettavano che Peña Nieto pagasse le tv per ottenere una copertura mediatica favorevole. Ci sono le proteste del 2012, quando l'ora Presidente era solo candidato, da parte del movimento giovanile #yosoi132. E poi c'è l'enorme maglia nera del narcopotere: gli 80mila morti e i 20mila scomparsi in otto anni, le vittime della guerra narcos. La consegna dei 43 studenti da parte della polizia ai narcotrafficanti, la rete di relazioni e di comando, in un Paese che scende in piazza perché dallo Stato non si sente protetto. Un Paese che però con l'Occidente intrattiene fitte relazioni commerciali e politiche, tanto che lo scandalo intacca sì, ma senza fare troppo rumore.

Si comincia a sgualcire però l'immagine di Peña Nieto come "salvatore". Così lo aveva chiamato il Time: "salvatore del Messico". Una medaglia al valore consegnatagli per le riforme economiche: la riforma delle telecomunicazioni e quella energetica, tra le altre. Apertura ai privati e alle compagnie straniere, innanzitutto. Quella "medicina impopolare", come la definiva il 7 ottobre Fareed Zakaria, il politologo allievo di Samuel Huntington, intervistando proprio il Presidente messicano sulla Cnn. Un pacchetto di riforme ben visto dall'establishment americano, già abituato alle fitte relazioni dell'accordo di libero scambio. Un accordo che è però da tempo anche sotto accusa per aver aumentato le disuguaglianze in Messico e aver "strangolato" gli agricoltori. Agricoltori come quelli dello Stato di Guerrero, uno dei più poveri e uno di quelli dove ancora si protesta, la regione del Messico in cui la coscienza sociale ancora urla, ha il volto di 43 studenti, e aspetta di tornare a casa.

(26 novembre 2014)

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