venerdì 28 novembre 2014

La guerra del petrolio che divide il mondo.


Il titolo è di un interessantissimo articolo di Alberto Negri su il Sole 24 Ore. Ma la sostanza merita la dovuta attenzione, anche perchè conferma le tesi espresse negli articoli usciti in questi giorni su Contropiano e la nostra analisi sull'acutizzazione della competizione globale e dunque della competizione tra i vali poli imperialisti e neocapitalisti.

La guerra del petrolio che divide il mondoLa geografia del petrolio vede in campo tre soggetti con interessi divergenti: Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita con i loro rispettivi alleati. Ai global player del greggio si affiancano, si adeguano e talvolta giocano in proprio altri soggetti come l'Iran, il Venezuela, la Cina. Una parte crescenti delle transazioni petrolifere non vengono più effettuate in dollari ma in oro o con modelli di pagamento bilaterali che escludono le strettoie statunitensi. Il crollo dei prezzi petroliferi fa perdere profittabilità alle produzioni di shale gas che hanno alti costi di estrazione e produzione. Insomma è l'intera geografia mondiale del petrolio che viene ridisegnata, con effetti inevitabilmente nuovi e destabilizzanti del vecchio sistema delle relazioni internazionali. Buona lettura.

La guerra del greggio divide il mondo
di Alberto Negri, da Il Sole 24 Ore del 28 novembre 2014
I mercati fanno i barili (di petrolio) ma non sempre i coperchi. Siamo così sicuri che il ribasso dell'oro nero ci porterà solo benefici? L'ultima guerra nel cuore del Medio Oriente, contro il Califfato, è la più paradossale vista negli ultimi anni: i prezzi del petrolio invece di salire, come quasi sempre è accaduto in passato, stanno crollando.

Non è questo l'unico precedente. Al vertice arabo del giugno 1990 Saddam Hussein esplose in una filippica contro il Kuwait e le monarchie del Golfo: «Estraete troppo petrolio, ogni calo di un dollaro della quotazione costa all'Iraq un miliardo l'anno. Contro di noi è in corso una guerra economica». Oggi sotto i 100 dollari al barile ci sono Stati che non raggiungono il pareggio di bilancio e come il Venezuela stanno esaurendo le riserve.
L'Iraq nell'estate del '90 era diventato insolvente e non poteva rifondere i debiti contratti per fare la guerra all'Iran di Khomeini. Il greggio valeva in quel momento 11 dollari e la notte del 2 agosto del '90 i carri armati iracheni invasero il Kuwait.
Ricordiamoci allora di questo vertice Opec che si è concluso lasciando invariata la produzione perché forse le decisioni di Vienna non ci accompagneranno a un roseo ribasso della nostra benzina ma verso orizzonti più oscuri e complessi. La spiegazione della crisi dei prezzi è politica, oltre che economica. Tutti sanno del calo della domanda mondiale e dell'impatto dello shale oil degli americani che esportano ormai quasi quanto Libia, Iran e Nigeria messi insieme. Ma a guidare la discesa dei prezzi aumentando la produzione sono i sauditi (un terzo della produzione Opec) che stanno orchestrando da alcuni mesi una manovra con conseguenze assai gradite agli americani: creare altri problemi a Russia e Iran, due Stati nemici e sotto sanzioni che dipendono per i loro bilanci da gas e petrolio. I proventi energetici contano per il 60% del bilancio di Teheran, per il 50% nella Russia di Putin.
L'Arabia, con la copertura americana, è quindi tornata protagonista garantendosi una sorta di rendita geopolitica in Medio Oriente. Sono stati i sauditi a decidere come e quando agire contrastando il fronte sciita di Iran e Iraq che all'inzio dell'anno puntavano a triplicare la produzione e sottrarre i mercati orientali agli altri concorrenti del Golfo.
Nella guerra del petrolio ha giocato un ruolo assai interessante il Califfato. L'obiettivo di questo conflitto, ad alto contenuto di atti barbarici ma a bassa intensità militare, non è far fuori subito i jihadisti dello Stato Islamico ma pilotare la caduta di Bashar Assad in Siria, alleato di Mosca e Teheran, e mettere con le spalle al muro gli sciiti in Iraq, per renderli più ragionevoli con la minoranza sunnita. Spuntare l'arma petrolifera in mano a Baghdad e a Teheran fa parte di questa strategia.
A Vienna, quasi a sorpresa, l'Iran si è allineato con la posizione saudita. È un accordo di comodo, che fa di necessità virtù. Teheran, dopo il rinvio dei negoziati sul nucleare, ha capito che non saranno tolte le sanzioni e per non perdere quote di mercato si è adeguata. L'Iran ha mangiato la foglia: non ci sarà un accordo strategico che riconoscerà un suo ruolo predominante nel Golfo e guadagna tempo cercando di minare le sanzioni con l'ingresso nella Shanghai Cooperation Organization (Sco), con il patto nucleare con Mosca e quello energetico con la Cina. In attesa che Mosca e Pechino creino a San Pietroburgo la camera di compensazione finanziaria alternativa a Swift per aggirare l'embargo finanziario.
Ma c'è un'altra faccia della medaglia. Anche i bilanci dei sauditi ne risentiranno. Questa volta però, al contrario degli anni '90, l'Arabia può contare su riserve abbondanti: 750 miliardi di dollari. Non è detto però che chi produce i barili di greggio abbia pensato a fare anche i coperchi. La manovra di mettere alle corde Russia e Iran per rendere più malleabili Putin e gli ayatollah potrebbe non funzionare. Con il greggio a 10 dollari il governo del moderato Mohammed Khatami venne messo alle strette e a prevalere poi fu Ahmadinejad, esponente della linea dura dei Pasdaran. La situazione potrebbe ripetersi se il presidente Hassan Rohani non porterà a casa qualche risultato. Se Rohani fallisce, a Teheran vedremo altre facce al comando e ci ricorderemo di questo vertice Opec.

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