mercoledì 26 novembre 2014

Gallino: Jobs Act al ribasso, così Renzi sfascia l’economia

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Uno dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro, il Cnl, in attesa di una legge che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza, rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale. Strada già tracciata dagli accordi degli ultimi tre anni, ricorda Luciano Gallino: marginalizzare il Cnl significa cancellare la sua funzione storica, «che sta nel difendere la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari». Grazie al progressivo indebolimento del contratto nazionale, dal 1990 al 2013 quella quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 al 55%. «Si tratta di oltre 100 miliardi che, invece di andare ai lavoratori, vanno ora ogni anno ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza». Su questo piano inclinato ora la catastrofe sarà completa: il Jobs Act non è altro che una fabbrica di nuovi poveri, pagati pochissimo.
«Questo spostamento di reddito dal lavoro ai profitti e alle rendite ha pure contribuito alla contrazione della domanda interna», scrive Gallino in una riflessione su “Repubblica”, ripresa da “Micromega”. «Un top manager può pure guadagnareSquinzi e Renziduecento volte quel che guadagna un suo dipendente, ma quanto a consumi quotidiani, dagli alimentari ai trasporti, non potrà mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento dipendenti». Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori: «La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota-salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo». In più, le che arrancano «si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al di sotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone».

Si può quindi stimare, aggiunge Gallino, che il numero di “lavoratori poveri” aumenterà in notevole misura: «Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il Cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti». Infine, il regime di bassi salari introdotto di fatto dal Jobs Act «ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’interaeconomia». Con rare eccezioni, infatti, le imprese italiane si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto ricerca e sviluppo, investimenti, età degli impianti, innovazione di prodotto e di processo. «L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni ‘90. Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del Luciano Gallinoprecariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione».
Se la legge permetterà loro di «pagare salari da poveri», per Gallino si può stare certi che «quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni». E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato, resterà a zero. Tutto questo, senza contare che oggi i fattori di produttività sono estramemente complessi, legati a lunghe “catene di produzione del valore”. Esempio: un piccolo elettrodomestico da 50 euro, assemblato da ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi, ciascuno esposto a variazioni, difetti, ritardi, imprevisti. «Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale», conclude Gallino, «e non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente dello zero virgola, nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano nel Jobs Act come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da spartirsi».

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