giovedì 27 marzo 2014

Vent’anni fa Bill Clinton firmava ...........

Vent’anni fa Bill Clinton firmava il trattato di libero scambio tra i paesi del Nord America. Il primo passo di un processo che ha dato nuove regole all’economia mondiale ma all’Occidente ha lasciato un bilancio negativo: disoccupazione, redditi a picco, inquinamento e ingiustizia sociale.

di Federico Rampini, da Repubblica, 24 marzo 2014

Il libero scambio significa occupazione, porterà più posti di lavoro agli americani, e saranno impieghi ben remunerati ». Parola di Bill Clinton. Era l’inizio del 1994. Il presidente degli Stati Uniti firmava vent’anni fa un trattato che fu l’atto di nascita della globalizzazione. Era l’avvio di un processo “rivoluzionario”, che ha dato nuove regole all’economia mondiale, ha segnato il destino di interi popoli, ha sconvolto gerarchie secolari. Nel 1994 Clinton stava firmando il North American Free Trade Agreement (Nafta) quando dichiarò con fiducia e orgoglio l’avvento di un’era di prosperità per gliamericani.

Oggi il bilancio della globalizzazione, almeno nei paesi occidentali di vecchia industrializzazione, è a dir poco controverso, oscilla tra ambivalente e catastrofico. Per i suoi effetti sull’occupazione, sui redditi da lavoro, sulla giustizia sociale, sull’ambiente, è considerata più spesso una calamità che una manna. Al compimento dei suoi vent’anni “questa” globalizzazione si scopre orfana: non si organizzano celebrazioni, nessuno ne rivendica la paternità. E se Bill Clinton ha a cuore le chance di sua moglie Hillary di conquistare la Casa Bianca nel2016, la incoraggerà a schierarsi con quell’ampio fronte di forze (sindacati in testa) che chiedono limiti, vincoli e tutele “contro” la globalizzazione.


Il Nafta non è tutto, ma è una parte importante di questa storia. Quel trattato firmato con convinzione ed entusiasmo da Clinton (dopo che era stato negoziato dall’Amministrazione repubblicana di George Bush padre), faceva cadere gran parte delle barriere agli scambi in tutto il Nordamerica. Canada, Stati Uniti e Messico diventavano un mercato unico, all’interno del quale i prodotti e i capitali circolavano liberamente (meno le persone: dal Messico verso gli Stati Uniti i flussi migratori hanno continuato a subire restrizioni). In parallelo un esperimento analogo di libero scambio stava avvenendo in quegli anni in Europa: la costruzione del mercato unico europeo, ispirato dalla stessa filosofia e da un identico ottimismo sui benefici dell’apertura delle frontiere. E tuttavia il Nafta è considerato perfino più importante, per diverse ragioni. Anzitutto le dimensioni di quell’esperimento. Messi insieme, Usa Canada e Messico rappresentano il più ricco mercatodel pianeta. Oggi la loro popolazione aggregata si avvicina al mezzo miliardo, i loro Pil addizionati sfiorano i 20.000 miliardi di dollari, il reddito pro capite punta verso i 40.000 dollari annui.

Inoltre il mercato unico europeo, pur essendo stato disegnato prima (1992), andava al traino ideologico dell’America: dal premio Nobel dell’economia Milton Friedman, al presidenterepubblicano Ronald Reagan, gli Stati Uniti erano stati la base della riscossa neoliberista che avrebbe conquistato il mondo. L’America andò più avanti di tutti gli altri, privatizzando a oltranza, ricacciando indietro il ruolo dello Stato, tagliando il Welfare (anche sotto Clinton). Infine con il Nafta gli Stati Uniti fecero le prove generali dell’esperimento successivo, ancora più vasto: lacreazione del World Trade Organization (Wto), e la cooptazione della Cina nella nuova architettura degli scambi mondiali. Nel primo capitolo di questa storia c’era il Messico al posto della Cina. Su scala più piccola, ma comunque significativa, è verso il Messico che iniziarono le delocalizzazioni. Moltre imprese, non soltanto americane ma anche giapponesi o sudcoreane che producevano per il mercato Usa, andarono a insediare le nuove fabbriche subito a ridosso del confine messicano. Si chiamarono “maquiladoras”, erano l’embrione di quel che sarebbe accaduto con la Cina e altre nazioni emergenti. In Messico le multinazionali americane e giapponesi andavano a cercare manodopera a basso costo, sindacati deboli, poche regole a tutela dell’ambiente, modestapressione fiscale. Ancora oggi il bilancio di quell’operazione spacca in due gli osservatori americani. Da una parte la U.S. Chamber of Commerce (una sorta di Confindustria) esalta i benefici del Nafta sottolineando che «l’interscambio Usa-Messico è balzato da 337 miliardi a quasi 1.500 miliardi di dollari». Sul fronte opposto la confederazione sindacale Afl-Cio, denuncia che «settecentomila posti di lavoro americani sono stati trasferiti in Messico». Altre controversie riguardano l’impatto ecologico: fin dall’inizio una organizzazione ambientalista californiana, il Sierra Club, denunciò l’invasione di Tir messicani sulle autostrade a Nord di San Diego, con un degrado dell’inquinamento. Oggi paradossalmente è dal Nord che viene la minaccia, il Canada vuole inondare gli Stati Uniti di idrocarburi con il maxioleodotto XL Keystone.

Fin da principio il pericolo più grave fu individuato nella condizione dei lavoratori. Cinque anni dopo il Nafta, i sindacati riunitinell’Afl-Cio si unirono ai verdi, ai terzomondisti, agli anarchici e ai blac-block nella “battaglia di Seattle” il 30 novembre 1999, quando quarantamila manifestanti assediarono il summit del Wto. Ma il pensiero unico neoliberista era ancora egemonico nell’establishment e nei governi, anche di sinistra. A riprova di quali fossero le aspettative sugli effetti della globalizzazione, in quella fine millennio un dibattito sorprendente divampava ai vertici del partito comunista cinese: l’ala sinistra era convinta che fosse un errore aderire al Wto, paventava la colonizzazione della Cina da parte del capitalismo occidentale.

Un inizio di ripensamento ai vertici, si è avuto con la crisi del 2009. In quell’anno Barack Obama, appena insediatosi alla Casa Bianca, vara la maxi-manovra antirecessiva (800 miliardi di spesa pubblica) intitolata American Recovery and Reinvestment Act, e vi inserisce la Buy American Provision. È una clausola protezionista, “compra americano”: indica che ogni dollaro di quella manovra va usato per appalti a imprese Usa, per comprare made in Usa. Non a caso scattano subito i ricorsi dei partner, il governo canadese denuncia una violazione del Nafta. Ma è il segnale di un cambio di atmosfera.
Vent’anni dopo, la globalizzazione è sotto accusa anche nei “templi” che ne avevano celebrato la religione. Basta aprire il sito del Wto per trovarvi un lungo e approfondito studio dal titolo “Delocalizzazioni, occupazione: come rendere la globalizzazione socialmente sostenibile?”. Il Fondo monetario internazionale, a lungo identificato con l’ortodossia liberista del “Washington consensus”, nel suo sito ospita una lunga ricerca su questo tema: “La globalizzazione abbassa i salari e trasferisce all’estero i posti di lavoro?”. Qualcosa sta cambiando anche nelle tendenze dell’economia reale. A una recente convention della multinazionale danese Maersk, la più grande compagnia marittima mondiale e il leader nel trasporto di container, sono state proiettate analisi che dimostrano come il traffico merci internazionale «rallenta»rispetto alla crescita mondiale.

Il premio Nobel Joseph Stiglitz (nell’analisi che qui pubblichiamo) invita Obama a non affrettare i tempi dei nuovi trattati di libero scambio. Ce ne sono due in gestazione, uno tra gli Usa e le economie del Pacifico, l’altro tra gli Usa e l’Unione europea che verrà evocato da oggi negli incontri di Obama all’Aia (G7), a Bruxelles (Ue e Nato), a Roma. Un altro premio Nobel, Paul Krugman, fu uno dei primi teorici della globalizzazione ma oggi non esita a dichiarare che «è stata governata malissimo». Una tesi mette in diretta correlazione la stagnazione dei redditi da lavoro, e la concorrenza dei paesi senza sindacato come la Cina. Analisi più sofisticate indicano che la globalizzazione è una concausa, insieme con il progresso tecnologico che ha ridotto l’uso della forza lavoro soprattutto nelle mansioni meno qualificate.

Tutto questo però non basta a spiegare la dilatazione delle diseguaglianze. Gli stipendi dei chief executive dovrebbero essere sottoposti alle stesse pressioni al ribasso: oggi la Silicon Valley californiana pullula di giovani manager venuti dall’India. Invece le paghe dei top manager sono schizzate verso l’alto mentre gli stipendi del ceto medio hanno perso quota ovunque. La globalizzazione, nelle analisi più raffinate di Daron Acemoglu, James Robinson e Chrystia Freeland, è stata usata dalle elite per costruire una “società estrattiva”: con una mobilità sociale bloccata, un potere politico influenzato dalle lobby, normative fiscali che accentuano le diseguaglianze garantendo l’elusione alle rendite finanziarie. Il bilancio che ne fa Stiglitz è confermato dal Census Bureau federale: «Un lavoratore maschio adulto in America oggi guadagnameno di 40 anni fa».

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