domenica 29 settembre 2013

Cala il sipario sulla poltiglia chiamata Seconda Repubblica


La crisi di governo si incrocia da subito con una profonda crisi istituzionale. Beppe Grillo sta già chiedendo perfino le dimissioni di Giorgio Napolitano. Quando il Pd e il Pdl rielessero il Peggiorista del Quirinale, parlammo di “vilipendio al popolo italiano”. Ci risultava ben chiaro che Napolitano Due avrebbe dato vita a un governo peggiore di quello – già disastroso – di Rigor Montis (il minor economista della nostra epoca, che Napolitano Uno aveva fatto senatore a vita per poi indirizzarlo a Palazzo Chigi). Peccavamo però di ottimismo. Nemmeno certi governi balneari di Giovanni Leone o di Amintore Fanfani al suo crepuscolo avevano congelato in modo tanto miserabile la funzione di governo quanto il governo di Enrico Letta, ora al capolinea. Perciò la crisi rivela bene quanto siano cadute in basso le cupole delle “larghe intese”. Al minimo di azione di governo (un minimo sotto zero), è corrisposto il massimo di fuga in avanti per stravolgere l’assetto della Repubblica.
Nonostante la paralisi lettiana, gli “strateghi” del Pd e del Pdl, rifugiati sotto le vecchie ali del Peggiorista, pensavano infatti di cambiare metà della Letta e NapolitanoCostituzione, cioè distruggerla, proprio come piace a Jp Morgan. Hanno preso il piede di porco (anzi, un piede di porcellum) e hanno iniziato a scardinare l’articolo 138, cioè la saracinesca che protegge la Carta dalle manomissioni improvvisate. Tra le cose buone della crisi c’è questa: forse il processo di revisione che insidia la Costituzione si interrompe. Magari l’assalto alla saracinesca muore lì, e quei “saggi” che fanno da palo potranno allegramente trovarsi una diversa collocazione per il piede di porco. Qualche suggerimento in proposito glielo possiamo comunque dare, il 12 ottobre. Il Pd ha già messo in fuga due terzi dei suoi iscritti, eppure i suoi dirigenti non se ne curano. Anche se sapevano che il Caimandrillo era vicino a subire inevitabili condanne nei suoi processi, lo hanno abbracciato, con una pulsione conservatrice che si è rivelata una pulsione suicida.

Me lo ricordo bene il Tg3 del 20 aprile 2013, quando Giorgio Napolitano era stato appena rieletto. Si vedeva il Caimandrillo felice. Più che rettile, era erettile. Ma non era l’unico. Enrico Letta parlava con un’insolita spavalderia, e dichiarava che per il Pd era il «momento di ricostruire», mentre commentava sui dissensi con un «faremo pulizia», cioè epurazioni. Letta era ormai il premier in pectore, e pensava di durare, di poter sopportare qualsiasi prezzo. Calcolo infondato. Molti critici insistono dicendo: «Hanno sbagliato tutto». Ma questi non sono soltanto sbagli di calcolo e di prospettiva. Il fatto è che Pd e Pdl sono i prodotti finali della cosiddetta Seconda Repubblica, un composto bipartitico instabile e degenerato, che ammette una competizione per contendere le cariche, ma che in realtà non Berlusconiaffronta mai l’ingombro delinquenziale dei ricatti e degli scambi.
La Seconda Repubblica è nata infatti ammazzando Falcone e Borsellino, e ha vegetato nascondendone con ogni mezzo il perché. Sotto la copertura della trattativa tra lo “Stato profondo” e la mafia, tante altre negoziazioni hanno trasformato le classi dirigenti italiane in un ceto affaristico-politico criminale fra i più avidi e parassitari del pianeta: un sistema senza progetto, se non quello di arraffare, e durare fra le zuffe. Il garante costituzionale di tutta questa poltiglia non può più tenerla insieme. Ci vorrebbe un progetto, ma Napolitano non ha altro progetto che conservarla. Solo che ormai questa poltiglia è polvere da sparo.
C’era un’altra cosa che teneva insieme gli ingredienti dell’ultimo esperimento del dott. Napolitanstein: era la situazione internazionale, cioè quel che i giornaloni italiani trascurano sempre di considerare. Fino alle elezioni tedesche del 22 settembre occorreva un po’ di formaldeide che imbalsamasse l’Italia e lo spread senza far scatenare prima di allora una crisi incontrollabile. E fino a pochi giorni fa la i comandanti atlantici della Portaerei Italia non gradivano scazzi fra i suoi ufficiali perché c’era una guerra da fare subito, quella alla Siria. Prima della guerra del Kossovo, intorno al governo erano riusciti a mettere insieme perfino Cossiga e Cossutta, e prima dell’aggressione alla Libia avevano beneficiato dell’improvviso rientro di quasi tutti i fuoriusciti dalla maggioranza di Berlusconi. Quel minimo di stabilità atlantista serviva anche stavolta, ma poi l’attacco aereo Usa alla Siria ha avuto lo stop che sappiamo. Sono cambiati gli equilibri, dopo che son cambiati i papi, e i Brics. Nella Portaerei Italia si può riprendere a disfare i governi.
Grillo chiede le dimissioni del Peggiorista, ma chiede anche le elezioni politiche subito. Istituzionalmente, però, non può funzionare così. Se le dimissioni ci fossero, il collegio dei grandi elettori richiederebbe i suoi tempi per ricostituirsi, e poi per eleggere – con altri tempi imprevedibili – il nuovo presidente della Repubblica. E anche se il nuovo inquilino del Quirinale decidesse di sciogliere le Camere, il processo appena descritto non sarebbe da “elezioni subito”. I padroni dello spread nel frattempo ci tratterebbero da puntaspilli. Il fondatore del Movimento Cinque Stelle coglie tuttavia il fatto che quella di adesso non è una crisi di governo come le tante altre fin qui conosciute. La crisi politica si salda con la crisi economica e sociale più vasta, e segna un punto di non ritorno per la Seconda Repubblica. «Rien ne Beppe Grillova plus», avverte Grillo.
Il blocco raccolto da Napolitano per salvare il ceto politico-affaristico è dunque crollato. Potrebbe ricostruirsi solo snaturando più a fondo i riferimenti costituzionali e i valori delle sue componenti. È un’opera superiore alle forze dell’anziano protettore, ma non a quelle di esponenti più giovani e spregiudicati di quel ceto. Renzi è il punto di convergenza naturale, ma non gli sarà facile fare il Tony Blair di un paese in bancarotta. Beppe Grillo ora non può ripetere la stessa identica campagna che pure ha portato grandi numeri al M5S. A suo tempo chiese consigli e da qui ne partì uno: «Diventa cruciale, nel brevissimo tempo che rimane da qui alle elezioni, presentare liste migliori di quelle varate con la consultazione infra-partitica delle “parlamentarie”. Non c’è tempo per fare una grande selezione di massa. C’è tempo invece per guardarsi intorno fra “rappresentanti di tante liste civiche, movimenti di gente perbene. Ragazzi, professori, esperti” (riuso le parole di Beppe). I Cinquestelle li conoscono già: “I No-Tav, quelli dell’acqua pubblica, dei beni comuni, gli altri referendari”».
Scelga Grillo alcune decine di “saggi” indipendenti da presentare in vista delle elezioni in aggiunta al quadro delle liste attuali: alcuni da candidare come parlamentari, altri come possibili ministri, altri come autorevoli garanti. L’esposizione di Grillo sarebbe calibrata e cesserebbe di essere una sovraesposizione. La presenza di parlamentari indipendenti e non trasformisti sarebbe il seme di una nuova democrazia. Diventerebbe il punto di confluenza di una forza popolare in grado di dirigere e riformare profondamente la Repubblica. Troverebbe un’Italia disposta a una reale alternativa. Darebbe una prospettiva a milioni di elettori altrimenti portati ad astenersi. Grillo scelse diversamente. Il M5S ottenne un risultato impressionante, ma certo non lo proiettava in una dimensione pronta al governo. Ultimamente invece il problema del governo possibile Grillo se lo pone, eccome. Dopo il governo fantasma di Letta, Beppe Grillo può delineare un governo ombra: troverebbe poi la luce alle elezioni.
(Pino Cabras, “Crisi governo: crolla il capolavoro del Peggiorista. E ora?”, da “Megachip” del 29 settembre 2013).

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