mercoledì 22 maggio 2013

Legalizzare l’eutanasia

Mentre i sondaggi indicano che la maggior parte degli italiani è a favore della legalizzazione dell’eutanasia (oggi spesso praticata in maniera clandestina), la politica rimane inamovibile, ostaggio dei veti vaticani. La proposta di legge di iniziativa popolare lanciata dalla campagna ‘eutanasia legale’ mira al superamento di questa situazione, oltre che a fare da detonatore di un nuovo movimento per i diritti civili. Pubblichiamo l'intervento di Marco Cappato che apre il nuovo numero di MicroMega - in edicola da giovedì 16 maggio - dedicato al tema dell'eutanasia.

di Marco Cappato, da MicroMega 4/2013
Lo scorso dicembre ho accompagnato in Svizzera una donna che voleva ottenere l’eutanasia. Non aveva trovato nessun altro disposto a farlo. Era malata di cancro al fegato, non più operabile. Aveva letto sul giornale della campagna dell’Associazione Luca Coscioni «A.A.A. malato terminale cercasi» e si era fatta avanti. Riteneva che non avesse alcun senso per lei aspettare che il dolore divenisse insopportabile. Non accettava che altri decidessero al posto suo. È anche per le persone come lei, per l’urgenza di porre fine ai pochi esiliati della morte e ai tanti clandestini dell’eutanasia, che abbiamo deciso di provare a raccogliere almeno 50 mila firme necessarie per depositare in parlamento un testo di legge di iniziativa popolare, attivando la campagna «eutanasia legale» (www.eutanasialegale.it).

Se si vuole parlare di eutanasia scevri da pregiudizi e con la voglia capire, è meglio partire dalle persone con le loro storie, invece che dalla giungla di definizioni e distinzioni solitamente utilizzate per derogare al principio sulla carta riconosciuto da (quasi) tutti: ciascuno decide su se stesso. Se poi le storie le si mette in fila tutte, guardando i grandi numeri di una società che invecchia velocemente, ci si accorge di come l’allungamento della vita abbia determinato un cambiamento profondo del morire: sempre meno breve «momento» di separazione tra vita morte; sempre più lento e lungo «processo» di malattia e perdita graduale delle funzioni vitali. Come per ogni altra attività o fase della vita, dal nascere all’ammalarsi, dall’amare al concepire – la realtà insopprimibile è che ciascuno affronta la morte a proprio modo. «Io amo la vita», disse il radicale Piergiorgio Welby rivolgendosi al presidente Giorgio Napolitano per invocare il diritto a interromperla. Mano a mano che le scelte sulle modalità del proprio morire divengono un’esigenza di massa, aumenta la consapevolezza e la spinta per il diritto all’autodeterminazione. È quanto sta accadendo, senza che ne discutano i salotti televisivi, semplicemente sulla base dell’esperienza del vissuto di ciascuno. Ecco perché l’eutanasia – che Welby intendeva, con il teologo Jacques Pohier, come «morte opportuna» – è divenuta urgenza politica, nonostante la paura di chi governa i Palazzi italiani e vaticani. 


La distanza tra potere e popolo sull’eutanasia è una cartina di tornasole sulle condizioni di degrado della vita democratica italiana. I sondaggi indicano come maggioritaria l’opinione di chi preferisce l’eutanasia legale a quella clandestina. Secondo Eurispes è il 64 per cento. Secondo uno studio Demos-Il Gazzettino, nel Nord-Est si sfonda il 70 per cento persino tra gli elettori leghisti e tra i «praticanti saltuari» della religione cattolica. A fronte di questi numeri, l’unico movimento politico mobilitato per la legalizzazione sono i radicali; i socialisti sono favorevoli, insieme a singoli esponenti di altri partiti. La proposta di legge di iniziativa popolare rappresenta un tentativo di collegare le istituzioni a un’esigenza sociale e a una domanda politica crescente. Trent’anni dopo la prima proposta parlamentare a firma del socialista e radicale Loris Fortuna, già padre della legge sul divorzio, la campagna «eutanasia legale» può riportare un minimo di linfa vitale dentro a un corpo istituzionale reso agonizzante dalla negazione dei diritti civili e politici fondamentali. 

Con un potenziale di ascolto così positivo nell’opinione pubblica, raccogliere 50 mila firme autenticate e certificate – ma anche dieci volte tanto – non sarebbe un problema, se soltanto le leggi in Italia fossero rispettate. Abbiamo inviato i moduli a tutti gli oltre 8 mila comuni italiani, con una locandina da affiggere per informare i cittadini. Basterebbero 6 firme per comune. Abbiamo chiesto a sindaci e presidenti di Provincia di avvisare loro (noi non possiamo, non esiste un indirizzario) assessori e consiglieri comunali e provinciali, cioè oltre 150 mila persone abilitate – assieme a notai e cancellieri – ad autenticare le firme. In aggiunta, i dipendenti comunali e provinciali possono essere delegati ad autenticare, anche se in grandi comuni come Milano il sindaco non rilascia la delega. Raccogliere le firme diventa dunque un percorso a ostacoli contro il nemico invisibile della burocrazia paralizzante. Su www.eutanasialegale.it si trovano le istruzioni dettagliate per dare una mano ai tavoli di raccolta firme, o attivare la raccolta nel proprio comune, stampando i moduli e portandoli a vidimare presso gli uffici comunali. 

Nel merito, il primo obiettivo di ogni legalizzazione – come è stato sull’aborto, come è urgente che sia sulle droghe – è quello di rappresentare un’alternativa alla realtà di paura e disperazione – ma anche di abusi e crimini – rappresentata dall’eutanasia clandestina, che Umberto Veronesi ha più volte denunciato. La legalizzazione è anche un’alternativa all’esilio della morte, cioè a quell’eutanasia di classe (costa fino 10 mila euro) che centinaia di persone ogni anno vanno a cercare all’estero, per fuggire da uno Stato, l’Italia, nel quale chi aiuta un malato terminale a morire – come un genitore o un figlio che vuole smettere di soffrire – rischia fino a 12 anni di carcere. Il testo della proposta di legge – predisposto da Associazione Luca Coscioni, Uaar, Exit Italia, Radicali italiani, Amici di Eleonora onlus – si fonda sulla semplicità e la forza della Costituzione: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». 

Dal principio costituzionale dell’articolo 32 discendono regole, poche e chiare, che stabiliscono come ciascuno possa esigere il rispetto delle proprie decisioni in materia di trattamenti sanitari, ivi incluso il ricorso all’eutanasia, a condizione che: 

1) la richiesta provenga dal paziente, sia attuale e sia inequivocabilmente accertata; 
2) il paziente sia maggiorenne; 
3) il paziente non si trovi in stato, neppure temporaneo, di incapacità di intendere e di volere (oppure abbia lasciato indicate le proprie volontà attraverso testamento biologico); 
4) i parenti entro il secondo grado e il coniuge con il consenso del paziente siano stati informati della richiesta e, con il consenso del paziente, abbiano avuto modo di colloquiare con lo stesso; 
5) la richiesta sia motivata dal fatto che il paziente è affetto da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi; 
6) il paziente sia stato congruamente e adeguatamente informato delle sue condizioni e di tutte le possibili alternative terapeutiche e prevedibili sviluppi clinici e abbia discusso di ciò con il medico; 
7) il trattamento eutanasico rispetti la dignità del paziente e non provochi allo stesso sofferenze fisiche. Il rispetto delle condizioni predette deve essere attestato dal medico per iscritto e confermato dal responsabile della struttura sanitaria ove sarà praticato il trattamento eutanasico. 

La proposta non entra nel dettaglio della gestione operativa delle richieste di eutanasia, demandando questioni come l’obiezione di coscienza sia all’approfondimento in sede di dibattito parlamentare, sia agli adeguamenti che un esecutivo dovrebbe poter apportare in corso d’opera sulla base dei risultati e delle esperienze internazionali. Il testo si limita perciò a definire, a fronte del diritto del paziente, il principio di non punibilità del medico e del personale sanitario che abbiano praticato trattamenti eutanasici, provocando la morte del paziente nel rispetto delle condizioni elencate.

Se ci saranno le 50 mila firme, o molte di più, sarà stato compiuto soltanto il primo passo. Nella storia del parlamento le leggi dei cittadini sono state del tutto ignorate. Le Camere appena elette forse non potranno permettersi di proseguire l’ostilità pluridecennale nei confronti di iniziative popolari, referendarie e legislative. Sarebbe difficile spiegarlo, ad esempio, da parte degli eletti del Movimento Cinque Stelle, dopo che da anni Grillo va rivendicando come sia stata proprio l’indifferenza dei partiti nei confronti della legge popolare sul «parlamento pulito» a determinare la loro presentazione alle elezioni. Sarebbe un po’ più difficile di prima anche per gli altri, ora che piangono copiose lacrime di coccodrillo su alcuni referendum traditi, come quello sul finanziamento pubblico ai partiti, e che personalità come Andrea Manzella e Stefano Rodotà, tra gli altri, individuano nel potenziamento degli strumenti costituzionali di iniziativa popolare una strada per ridurre lo iato tra istituzioni e cittadini.

Anche se si sarà ottenuto che il parlamento ne discuta, non c’è da farsi illusioni sulla capacità delle forze parlamentari di produrre una buona legge sul fine-vita. I precedenti sono scoraggianti: il disegno di legge Calabrò contro il testamento biologico, rimasto incompiuto nella scorsa legislatura, si apprestava a ripetere il copione già scritto sulla legge 40 contro la fecondazione assistita: una legge anticostituzionale, smontata pezzo per pezzo dalla giurisdizione italiana ed europea dopo anni di diritti negati ed estenuanti ricorsi giudiziari. Proprio come sulla legge 40, le contrarietà e le ambiguità a sinistra potrebbero rivelarsi le più insidiose. Ecco perché è utile porre non soltanto la questione del testamento biologico, ma anche dell’eutanasia, nei termini più netti: legalizzazione contro clandestinità. Non per massimalismo, ma per chiarezza dei princìpi che si vogliono affermare, indispensabili anche per ogni eventuale compromesso che non sia una resa. Non ci si può attendere un esito parlamentare positivo in assenza di una mobilitazione esterna e dell’azione diretta degli stessi pazienti e dei medici; una campagna che farà massa critica se ad essa si collegheranno anche altre grandi questioni sociali che attendono risposta: dalla legalizzazione delle droghe al divorzio breve, dall’eliminazione delle discriminazioni giuridiche contro le coppie omosessuali alla libertà di ricerca scientifica, salute riproduttiva e fecondazione assistita. La storia degli anni Settanta fornisce, nel metodo e nel merito, un’indicazione del percorso che un nuovo movimento dei diritti civili potrebbe intraprendere. Già allora, dopo divorzio, aborto e obiezione di coscienza, se non fosse intervenuta la Corte costituzionale la spinta del Partito radicale avrebbe portato all’abrogazione del Concordato e completato la modernizzazione del paese. Oggi, Radicali italiani ha depositato un pacchetto referendario del quale la proposta sull’eutanasia potrebbe fungere da detonatore.

A chi ha avuto la bontà di leggere fin qui rimane la responsabilità di decidere non solo se condividere o meno l’obiettivo, ma anche e sopratutto se dedicare qualche energia e qualche ora del proprio tempo a realizzarlo, andando a firmare e convincendo altri a farlo. Per decidere se ne vale la pena, è bene tornare alle storie delle singole persone, «dal corpo dei malati al cuore della politica», come diciamo all’Associazione Luca Coscioni. Lo faccio con le parole dell’amico Carlo Troilo: «Il 18 marzo 2004 mio fratello Michele, settantenne, scapolo, malato terminale di leucemia, non avendo trovato un medico disposto ad aiutarlo a morire senza inutili sofferenze, si suicidò gettandosi, all’alba, dal quarto piano della sua casa a Roma. La sera precedente, per la prima volta, aveva avuto un episodio di incontinenza e aveva dovuto subire l’umiliazione di essere lavato da una badante e rimesso a letto con un pannolone. Michele non si è suicidato per dolori insopportabili, di cui non soffriva, né perché aveva capito di essere ormai incurabile. Lo avrebbe fatto prima. Si è suicidato perché era un uomo riservato, pudico, elegante nel fisico come nell’animo. Non poteva accettare di vivere ancora qualche settimana con l’umiliazione della dipendenza totale, dell’incontinenza, dei pannoloni. Dunque, non ha accettato di perdere la sua dignità, garantita a tutti noi dalla nostra Costituzione. Da allora, mi sono impegnato, con l’Associazione Luca Coscioni, nella battaglia in favore dell’eutanasia».
Sì, ne vale la pena.



La testimonianza di una malata di cancro che ha scelto di andare a morire in Svizzera.

(21 maggio 2013)

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